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Dall’alto dei Pali

di Adela Gjata
  Pali
Data di pubblicazione su web 20/01/2013  


Il Fabbricone di Prato e il Teatro Corsini di Barberino rendono omaggio alla Compagnia Scimone Sframeli, artigiani di un teatro costruito ‘in casa’ dalla partitura drammaturgica alla realizzazione scenica, più volte celebrati in Italia e ancor più all’estero, varcando nel 2007 persino la soglia dell’autorevole Comédie Française. Il duo messinese, legato da un fecondo sodalizio quasi ventennale, presenta all’interno de Il luogo dei mondi possibili – rassegna che il Fabbricone dedica alla drammaturgia italiana – una trilogia che affianca al primo sorprendente Nunzio (1994), Il cortile (2004) e Pali (2009), vincitori, gli ultimi due, del Premio Ubu come Nuovo testo italiano. Siamo stati spettatori di Pali, breve pièce dal sapore squisitamente surreale, che vede in scena il drammaturgo e attore Spiro Scimone accanto all’inseparabile Francesco Sframeli, che firma anche la regia della messa in scena. La sua chiave interpretativa esalta, in consonanza con l’asettico linguaggio drammaturgico, la carica espressiva dei silenzi e dei corpi scenici.



Foto di Gianni Fiorito

 

Pali si situa in una sorta di Golgota postmoderno, luogo stilizzato e atemporale permeato di quell’aura metafisica e sospesa che contraddistingue la poetica della compagnia. Davanti a un quadro-fondale che tinge progressivamente la scena con tonalità giallo-arancioni, rosa-violacee e azzurre (disegno luci di Beatrice Ficalbi), appoggiati su un grigiastro piedistallo di calcite, si ergono tre pali. Da quelli laterali, nella posizione dei ladri evangelici, scrutano l’orizzonte La Bruciata (Francesco Sframeli) e Senzamani (Spiro Scimone); parrucca nera, camicia scarpe e ombrello rosso fuoco per la prima; pantaloni scuri e ombrello blu il secondo. Personaggi enigmatici dei quali poco si sa, se non il fatto che l’uomo, operario, ha perso le mani durante un infortunio sul lavoro, collegandosi al destino di quel Nunzio ridotto in fin di vita per via delle polveri tossiche respirate in fabbrica. La pacatezza del loro discorso viene animata dall’arrivo di una banda bizzarra formata da Il Nero – un Gianluca Cesale dal viso annerito che percuote il tamburo – e L’Altro (Salvatore Arena), trombettista, carichi di strumenti musicali e ingombranti oggetti d’uso quali catini bidoni d’acqua e mollette. Li vediamo impegnati in azioni quotidiane che, inserite nel surreale contesto della messa in scena, assumono valenze dadaiste dal retrogusto apocalittico. Il Nero lava a mano i panni, suoi e altrui; mentre l’Altro s’immedesima in assurdi, fiaccanti quanti inutili sforzi, come dare fiato alla tromba senza produrre suoni, oppure raccontare e mimare disperatamente la barzelletta della gallina e dell’uovo, perché, come ripete Il Nero «se non lo vede soffrire la gente non si diverte». I musicisti girovaghi celano dietro il parossistico agitarsi una tragicomica sofferenza di vivere, venata di un’infinita malinconia.

 

A queste ossimoriche coppie si aggiunge un quinto personaggio, il Padre, al quale La Bruciata rivolge continuamente domande destinate a rimanere senza risposta; una sorta di Godot lontano e assente invocato con dichiarata ironia, che conferma la disillusa presa di coscienza ad una perenne solitudine esistenziale. Sui Pali La Bruciata e Senzamani – e successivamente anche i due musici che occuperanno il palo centrale, quello del Salvatore – vi sono arrivati «dopo aver alzato la testa», dopo avere maturato quindi una consapevolezza e una lucidità di pensiero che permette loro di vedere per quello che è il «mare di merda» che ha invaso il mondo ai loro piedi («dai Pali si vede tutto, anche le cose lontane, anche le cose nascoste»). I Pali diventano sede di distanza e di osservazione per questi stiliti coevi, posizione onnisciente e libera dove rifugiarsi dalle tempeste del nostro «cattivo tempo».



Foto di Gianni Fiorito

 

L’opera, scritta in un italiano plasmato dalla musicalità sicula, consolida l’identità poetica di un drammaturgo troppo spesso affiliato tra gli epigoni beckettiani e pinteriani. L’assurdo desolato del drammaturgo irlandese è, nell’opera di Scimone, la cima dell’iceberg di una scrittura scenica che amalgama temi universali con il temperamento e la forma mentis degli abitanti della calda terra siciliana, linfa vitale che permea personaggi e interpreti. Il riso si muove parallelamente al dramma che si cela dietro una comicità elementare intessuta di luoghi comuni e di giochi di parole. La pièce, una sorta di “monologo a quattro” è basata su dialoghi serrati, ossessivamente ritornanti, e battute di pochi vocaboli. L’uso preponderante di figure retoriche quali l’epanadiplòsi e l’epanalessi, ossia di forme di ripetizione di parole o parti del discorso, rilevano variazioni di un medesimo tema che donano al testo un ritmo sincopato. Ripetizioni, variazioni, cesure e silenzi portano, inoltre, a esplorare tutte le possibilità offerte dalle parole, la loro necessità, dalla cui superficie levigata affiora un sottotesto denso di attuali allusioni socio-politiche (valga per tutto il tema del famoso ‘barzellettiere’).

 

Dal rarefatto clima dello spettacolo, estraneo a qualsiasi sentimentalismo o patetismo, fluisce naturale un vento surreale non estraneo a motivi di speranza ravvisabili nell’abbandono degli spazi claustrofobici delle prime opere, e sopratutto nei colori dei costumi e delle scene di Lino Fiorito che accosta richiami di un certo manierismo ai toni luminosi alla Matisse. Il tutto racchiuso in un efficace contrappunto tra l’immediato linguaggio scenico e la complessità degli argomenti affrontati.




Pali
cast cast & credits
 















































Spiro Scimone
 
 
 
 
  
 
Francesco Sframeli
 
 
 
 
 



 
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