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Si sale, si fa un giro e poi si scende

di Elisa Uffreduzzi
  Django unchained
Data di pubblicazione su web 23/01/2013  
                                 

Sud degli Stati Uniti, 1858. Un cacciatore di taglie tedesco, il Dott. King Schultz (Christoph Waltz), assolda uno schiavo nero, Django (Jamie Foxx), per farne il suo complice. Presto tra i due nasce una sincera amicizia, che li porterà a collaborare oltre il “contratto di lavoro”, per liberare Broomhilda, la moglie di Django (Kerry Washington), schiava nella piantagione dello spietato Calvin Candie (Leonardo Di Caprio). I fan di Quentin Tarantino lo aspettavano da anni e finalmente è arrivato: grande ammiratore del western e segnatamente dello spaghetti-western, il regista ce ne ha regalato uno tutto suo, a cinque anni da quel Sukiyaki Western Django (Takashi Miike, 2007), nel quale interpretava il pistolero Piringo. Fitto di citazioni e omaggi al western all’italiana, Django Unchained è insieme un condensato degli stilemi che hanno fatto la fortuna del regista e di quelli del western all’italiana. La matrice è evidente fin dai titoli di testa in rosso, con la canzone Django (di Luis Bacalov e Franco Migliacci) cantata da Rocky Roberts in sottofondo, che rimandano inequivocabilmente al Django di Sergio Corbucci (1966), così come la presenza nel cast di Franco Nero - che di quel film era l’interprete principale -, della setta degli “incappucciati”, ecc. La trama è una sorta di condensato di Per qualche dollaro in più (Sergio Leone, 1965) - si pensi alla figura del Monco, cacciatore di taglie -, Il buono e il brutto e il cattivo (Sergio Leone 1966) - vedi il duello finale al cimitero -  e tanti altri western “di casa nostra” che hanno fatto scuola al cinema americano proprio sul suo territorio. Il tutto sottolineato da una colonna sonora nella quale si distinguono i temi composti da Ennio Morricone, che di quel genere è stato “la musica” e la canzone Ancora Qui composta con e cantata da Elisa.






Tarantino tuttavia, lungi dall’appiattirsi su un repertorio tanto ricco e monumentalizzato dal tempo, alla già nutrita ricetta di base aggiunge gli ingredienti preferiti del pulp o exploitation-movie che dir si voglia, col corredo di brandelli di carne esplosa e sangue in abbondanza che ci si aspetta e l’originale idea di fare di un nero un cacciatore di taglie, due anni prima di quella guerra civile che avrebbe portato all’abolizione dello schiavismo negli Stati Uniti.

A fare il western è in primo luogo il paesaggio, protagonista al pari – e forse più – degli attori principali della vicenda narrata. E questo Tarantino lo sa bene, come dimostrano i giochi di messa a fuoco figura-sfondo e i campi lunghi e lunghissimi con gli interpreti ridotti a minuscole sagome - nella lunga sequenza invernale o negli appostamenti ad esempio -, in cui è spesso la natura spettatrice indifferente a farla da padrona. Del resto,  per dirla con Bernardi, il western «non evita il mistero della natura e del paesaggio ma li addomestica, li controlla. I personaggi si trovano in una relazione dialettica con l’ambiente, lo subiscono, lottano contro di esso, ma ne fanno anche parte. […] La grande forma western è basata sull’equivalenza paesaggio-natura, dove per natura s’intende però l’anima, la natura interiore, una natura immaginaria e romantica»1. Quella di Django, nel nostro caso.

Così, se le scene d’azione nel mood pulp consentono al regista di sbizzarrirsi in un montaggio rapido e fitto di tagli e angolazioni impreviste, è nelle scene più propriamente “western” che la camera trova un più esteso orizzonte o dà luogo all’iconografia eroica del genere, col catalogo di inquadrature che ne consegue: il prode cowboy a cavallo ripreso dal basso oppure di spalle, in primo piano, col nemico che sta per essere freddato appena distinguibile in campo lungo.

Tutto questo condito da una copiosa dose di ironia, sia nella sceneggiatura, ricca di dialoghi serrati e taglienti, che nei costumi: da quello improponibile che il novello uomo libero Django sceglie come divisa a quello di una delle schiave che popolano Candyland, che spicca per l’orlo troppo corto e un’acconciatura caricaturale. Ancora, si pensi ai cappucci degli “squadristi” del caso, le cui fessure per gli occhi risultano troppo piccole, ecc.






Django unchained è senza dubbio un gioco cinematografico: di generi, di inquadrature, di ruolo, dove ognuno può immedesimarsi nell’eroe del caso e sentirsi invincibile per 165 minuti. Sorprende un po’ perciò, a più di vent’anni di distanza da Le iene (1992), trovarsi ancora di fronte alle sterili polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film nelle sale americane, tacciandolo di eccessiva violenza e che hanno fatto il giro del mondo in breve tempo. Evidentemente le regole di questo gioco qualcuno non le ha ancora capite o finge di non averle capite…

Citazioni, iperboli (corpi che saltano indietro di metri e metri per uno sparo, zampilli di sangue infiniti, ecc.), la presenza di un cast di professionisti arcinoti (oltre ai protagonisti già citati, Samuel L. Jackson e Don Johnson in due vistosi cammei), l’esplicito riferimento wagneriano (a L'anello del Nibelungo) e l’immancabile “messa in quadro” del regista stesso, costituiscono un costante promemoria per lo spettatore, ininterrottamente consapevole del proprio ruolo nel gioco. È evidente: il Tarantino-film funziona come una giostra sulla quale si sale, si fa un giro e poi si scende, quando si riaccendono le luci. Troppi gli ammiccamenti al pubblico, lungo tutto il film, per dimenticarlo.

 



1. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 57.





Django unchained
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