Capolavoro verdiano tra i pochissimi ancora assenti nella parabola artistica di Riccardo Muti, Simon Boccanegra approda finalmente, dopo una lunga circumnavigazione della partitura, nel curriculum mutiano. Gli esiti – altissimi – riempiono un vuoto (come si fa a completare un discorso su un grande attore shakespeariano finché non ha affrontato Riccardo III?) e, per chi ama i confronti a distanza, indurrà anche a un inevitabile parallelo con Claudio Abbado: il quale, nella sua non altrettanto fitta militanza verdiana, ha trovato proprio nel Simone uno dei momenti più paradigmatici della propria arte direttoriale (e, probabilmente, della propria vicenda umana).
Il paragone, in realtà, non ha troppa ragion dessere proprio in virtù della relativa “non verdianità” di Abbado: tanto Claudio scarnifica quanto Riccardo ama, di Verdi, soprattutto la polpa; tanto luno prende le distanze da certa retorica ottocentesca (in cui Verdi, però, fermamente credeva) e proietta il Boccanegra in un futuro protonovecentesco, che occhieggia quasi al cupio dissolvi mahleriano, quanto laltro è consapevole della natura di “opera di transizione” – sperimentale e tradizionale insieme – del Simone, riconducendolo in un alveo più classicamente verdiano, dove lallucinata superstizione di taluni squarci corali e certi effetti di canto fuori scena rappresentano un debito implicito con Il trovatore. Muti, insomma, crede pure al versante tribunizio e predicatorio dellopera, che Abbado tendeva a sfumare, e vede in Simon Boccanegra un grandissimo messaggio di verità. Abbado, più modernamente, si fermava alla ricerca della verità: nellidea che – in musica e in arte – è difficile approdare a certezze assolute.
Francesco Meli e Maria Agresta
fotoLelli e Masotti ©Teatro dell'Opera
Tutto questo porta a un ulteriore corollario: il pessimismo illividito che permea lopera viene convertito, nella lettura di Muti, in una sostanziale vena di fiducia nelluomo. Il suo Boccanegra non è solo meno macerato di quello di Abbado: è pure assai meno cupo e tenebroso rispetto a quello di quei pochi altri grandi direttori – Mitropoulos, Gavazzeni, Solti… – che hanno scelto di cimentarsi con questa partitura. Sotto tale aspetto, un personaggio fosco e diabolico come Paolo Albiani ne esce alquanto ridimensionato (sebbene il puntuale Quinn Kelsey sia un cantante tuttaltro che sfocato) e, daltronde, ciò rientra nella più generale visione drammaturgico-musicale di Muti che, privilegiando larchitettura complessiva ai primi piani vocali, trova fondamento nella centralità della vicenda, non dei singoli personaggi. È una concezione perfetta per Macbeth o Nabucco, e che invece può ispirare perplessità nelle opere caratterizzate da grandi scontri tra i protagonisti comè appunto il Simone, ma lalito di speranza insufflato da Muti nella più “nera” tra le opere verdiane crea una cornice di profonda coerenza drammatica. Arrivato alla settantina, Muti sembra scoprire che Verdi può essere un narratore tormentato, ma sereno; e, nel caso di Simon Boccanegra, la serenità – questo pare suggerire la sua lettura – passa attraverso il mare.
Un “tema marino” percorre sotterraneamente tutta lopera, ma non sempre questaspetto è stato valorizzato: lalba sul mare genovese che apre il primo atto, anzi, ha spesso prestato il fianco a esecuzioni calligrafiche. Muti ottiene invece dallorchestra dellOpera di Roma unintroduzione strumentale a Come in questora bruna dove i trilli degli archi e il fraseggiare del clarinetto sono insieme pittura serena ed evocazione trasumanata, in unarmonia di proporzioni che dà veramente lidea dellumano affidarsi a qualcosa di più grande di noi; e pagine a rischio di convenzionalità, come i temi vagamente barcaroleschi di Vieni a mirar la cerula o Cielo di stelle orbato, diventano a loro volta un buon passaporto per linfinito. Musicista contadino, dunque uomo di terra, Verdi provò verso il mare forse più attrazione che amore: non a caso per il doge-corsaro Simone Boccanegra esso sarà rifugio, ma soprattutto tomba. Napoletano di radici pugliesi, Riccardo Muti è invece un uomo di mare. Sembra un dettaglio, ma la prospettiva cambia.
Simon Boccanegra
foto Lelli e Masotti ©Teatro dell'Opera
Questa lettura virilmente cullante, tormentata ma sostenuta da una limpida quiete di fondo, si traduce in un fraseggio strumentale chiarissimo e cantabile, dove lestroversione fonica non è disgiunta da una fondamentale flessibilità né il rigore ritmico esclude la campata dampio respiro. Resta invece limpressione che ai cantanti, talvolta, avrebbe giovato un fraseggiare più spazioso (George Petean è un protagonista sensibile, ma nel duetto con la figlia troppo ingabbiato dalla speditezza del passo orchestrale): ma rientra nella più autentica cifra espressiva di Muti che a cantare sia in primo luogo lorchestra, e linvolo canoro venga modellato su quello strumentale. Petean è comunque un baritono di emissione fin troppo tenoreggiante (i Mi e i Fa suonano piuttosto scoperti) ma molto signorile nellaccento, in difetto di carisma (nella scena della sommossa rischia di venire inghiottito dalla folla, anziché dominarla) ma persuasivo laddove si tratta di plasmare la nobiltà di chi consciamente si vota alla sconfitta: il terzetto con Amelia e Gabriele, dove Simone prende atto della necessità del proprio olocausto, è il momento più alto della sua interpretazione. Fanno ancora meglio Dmitri Beloselskiy (un Fiesco più umano che implacabile, capace di sfaccettare un personaggio allapparenza monolitico) e Maria Agresta (ottima sintesi di voce lirica e temperamento drammatico, che unisce in un sol colpo i due desiderata del ruolo di Amelia). Fa assai peggio invece Francesco Meli: che avrà mezzi privilegiati dalla natura, ma non al punto di occultare un registro acuto strozzato e scompaginato.
Tutti tendono a cantare al proscenio, attentissimi alle indicazioni provenienti dal podio: e ciò ha inevitabilmente impoverito una regia forse meno banale di quanto sia sembrato. Per il resto, Adrian Noble mostra di conoscere le indicazioni di Verdi (leffetto scenico della fiaccola presso limmagine della Madonna staccata da Simone per illuminare «la magion de Fieschi»), ma cade in qualche improprietà (il sipario dovrebbe aprirsi su Paolo e Pietro già intenti a dialogare, non mostrare i due congiurati che entrano in scena quatti quatti); né lasciutta visualità della sua regia è potuta entrare in dialettica con la monumentalità pittorica delle scene di Dante Ferretti. Il Teatro dellOpera per questa messinscena non ha badato a spese: ma a guardare linutilità di certi apporti (i pleonastici innesti coreografici di Sue Lefton), e anche le discontinuità dello stesso Ferretti (invasiva e non bella la straripante quadreria concepita per il secondo atto), vien da pensare che avrebbero giovato meno denaro e più idee. Didee musicali, per fortuna, lo spettacolo ne offriva invece molte.
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