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Tra le braccia del mare

di Paolo Patrizi
  Simon Boccanegra
Data di pubblicazione su web 05/12/2012  

Capolavoro verdiano tra i pochissimi ancora assenti nella parabola artistica di Riccardo Muti, Simon Boccanegra approda finalmente, dopo una lunga circumnavigazione della partitura, nel curriculum mutiano. Gli esiti – altissimi – riempiono un vuoto (come si fa a completare un discorso su un grande attore shakespeariano finché non ha affrontato Riccardo III?) e, per chi ama i confronti a distanza, indurrà anche a un inevitabile parallelo con Claudio Abbado: il quale, nella sua non altrettanto fitta militanza verdiana, ha trovato proprio nel Simone uno dei momenti più paradigmatici della propria arte direttoriale (e, probabilmente, della propria vicenda umana).

Il paragone, in realtà, non ha troppa ragion d’essere proprio in virtù della relativa “non verdianità” di Abbado: tanto Claudio scarnifica quanto Riccardo ama, di Verdi, soprattutto la polpa; tanto l’uno prende le distanze da certa retorica ottocentesca (in cui Verdi, però, fermamente credeva) e proietta il Boccanegra in un futuro protonovecentesco, che occhieggia quasi al cupio dissolvi mahleriano, quanto l’altro è consapevole della natura di “opera di transizione” – sperimentale e tradizionale insieme – del Simone, riconducendolo in un alveo più classicamente verdiano, dove l’allucinata superstizione di taluni squarci corali e certi effetti di canto fuori scena rappresentano un debito implicito con Il trovatore. Muti, insomma, crede pure al versante tribunizio e predicatorio dell’opera, che Abbado tendeva a sfumare, e vede in Simon Boccanegra un grandissimo messaggio di verità. Abbado, più modernamente, si fermava alla ricerca della verità: nell’idea che – in musica e in arte – è difficile approdare a certezze assolute.


 


Francesco Meli e Maria Agresta
fotoLelli e Masotti ©Teatro dell'Opera


Tutto questo porta a un ulteriore corollario: il pessimismo illividito che permea l’opera viene convertito, nella lettura di Muti, in una sostanziale vena di fiducia nell’uomo. Il suo Boccanegra non è solo meno macerato di quello di Abbado: è pure assai meno cupo e tenebroso rispetto a quello di quei pochi altri grandi direttori – Mitropoulos, Gavazzeni, Solti… – che hanno scelto di cimentarsi con questa partitura. Sotto tale aspetto, un personaggio fosco e diabolico come Paolo Albiani ne esce alquanto ridimensionato (sebbene il puntuale Quinn Kelsey sia un cantante tutt’altro che sfocato) e, d’altronde, ciò rientra nella più generale visione drammaturgico-musicale di Muti che, privilegiando l’architettura complessiva ai primi piani vocali, trova fondamento nella centralità della vicenda, non dei singoli personaggi. È una concezione perfetta per Macbeth o Nabucco, e che invece può ispirare perplessità nelle opere caratterizzate da grandi scontri tra i protagonisti com’è appunto il Simone, ma l’alito di speranza insufflato da Muti nella più “nera” tra le opere verdiane crea una cornice di profonda coerenza drammatica. Arrivato alla settantina, Muti sembra scoprire che Verdi può essere un narratore tormentato, ma sereno; e, nel caso di Simon Boccanegra, la serenità – questo pare suggerire la sua lettura – passa attraverso il mare.

Un “tema marino” percorre sotterraneamente tutta l’opera, ma non sempre quest’aspetto è stato valorizzato: l’alba sul mare genovese che apre il primo atto, anzi, ha spesso prestato il fianco a esecuzioni calligrafiche. Muti ottiene invece dall’orchestra dell’Opera di Roma un’introduzione strumentale a Come in quest’ora bruna dove i trilli degli archi e il fraseggiare del clarinetto sono insieme pittura serena ed evocazione trasumanata, in un’armonia di proporzioni che dà veramente l’idea dell’umano affidarsi a qualcosa di più grande di noi; e pagine a rischio di convenzionalità, come i temi vagamente barcaroleschi di Vieni a mirar la cerula o Cielo di stelle orbato, diventano a loro volta un buon passaporto per l’infinito. Musicista contadino, dunque uomo di terra, Verdi provò verso il mare forse più attrazione che amore: non a caso per il doge-corsaro Simone Boccanegra esso sarà rifugio, ma soprattutto tomba. Napoletano di radici pugliesi, Riccardo Muti è invece un uomo di mare. Sembra un dettaglio, ma la prospettiva cambia.


 


Simon Boccanegra 
foto Lelli e Masotti ©Teatro dell'Opera


Questa lettura virilmente cullante, tormentata ma sostenuta da una limpida quiete di fondo, si traduce in un fraseggio strumentale chiarissimo e cantabile, dove l’estroversione fonica non è disgiunta da una fondamentale flessibilità né il rigore ritmico esclude la campata d’ampio respiro. Resta invece l’impressione che ai cantanti, talvolta, avrebbe giovato un fraseggiare più spazioso (George Petean è un protagonista sensibile, ma nel duetto con la figlia troppo ingabbiato dalla speditezza del passo orchestrale): ma rientra nella più autentica cifra espressiva di Muti che a cantare sia in primo luogo l’orchestra, e l’involo canoro venga modellato su quello strumentale. Petean è comunque un baritono di emissione fin troppo tenoreggiante (i Mi e i Fa suonano piuttosto scoperti) ma molto signorile nell’accento, in difetto di carisma (nella scena della sommossa rischia di venire inghiottito dalla folla, anziché dominarla) ma persuasivo laddove si tratta di plasmare la nobiltà di chi consciamente si vota alla sconfitta: il terzetto con Amelia e Gabriele, dove Simone prende atto della necessità del proprio olocausto, è il momento più alto della sua interpretazione. Fanno ancora meglio Dmitri Beloselskiy (un Fiesco più umano che implacabile, capace di sfaccettare un personaggio all’apparenza monolitico) e Maria Agresta (ottima sintesi di voce lirica e temperamento drammatico, che unisce in un sol colpo i due desiderata del ruolo di Amelia). Fa assai peggio invece Francesco Meli: che avrà mezzi privilegiati dalla natura, ma non al punto di occultare un registro acuto strozzato e scompaginato.

Tutti tendono a cantare al proscenio, attentissimi alle indicazioni provenienti dal podio: e ciò ha inevitabilmente impoverito una regia forse meno banale di quanto sia sembrato. Per il resto, Adrian Noble mostra di conoscere le indicazioni di Verdi (l’effetto scenico della fiaccola presso l’immagine della Madonna staccata da Simone per illuminare «la magion de’ Fieschi»), ma cade in qualche improprietà (il sipario dovrebbe aprirsi su Paolo e Pietro già intenti a dialogare, non mostrare i due congiurati che entrano in scena quatti quatti); né l’asciutta visualità della sua regia è potuta entrare in dialettica con la monumentalità pittorica delle scene di Dante Ferretti. Il Teatro dell’Opera per questa messinscena non ha badato a spese: ma a guardare l’inutilità di certi apporti (i pleonastici innesti coreografici di Sue Lefton), e anche le discontinuità dello stesso Ferretti (invasiva e non bella la straripante quadreria concepita per il secondo atto), vien da pensare che avrebbero giovato meno denaro e più idee. D’idee musicali, per fortuna, lo spettacolo ne offriva invece molte.





Simon Boccanegra



cast cast & credits



Maria Agresta e George Petean

foto Lelli e Masotti

©Teatro dell'Opera

 


 



George Petean

foto Lelli e Masotti

©Teatro dell'Opera

 
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