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Nader ha le lenti a contatto blu

di Elisa Uffreduzzi
  Alì ha gli occhi azzurri
Data di pubblicazione su web 18/11/2012  

Strutturato come una tranche de vie, Alì ha gli occhi azzurri è solo il capitolo di un romanzo di formazione, del quale i titoli in sovrimpressione scandiscono giorno per giorno i paragrafi. La formazione in questione è quella di Nader (Nader Sarhan), sedicenne di origine egiziana che vive ad Ostia con i genitori. Con l’amico Stefano (Stefano Rabatti), suo compagno di scorribande, commettono piccoli furti, finché non si mettono nei guai più seriamente: Nader accoltella un ragazzo rumeno in discoteca, comincia così per lui, in compagnia dell’inseparabile amico, una settimana di peregrinazioni in cerca di un posto dove dormire, in fuga dal fratello del ragazzo e la sua gang. Parallelamente si sviluppa il motivo drammatico-sentimentale della relazione di Nader con Brigitte (Brigitte Apruzzesi), la ragazza italiana con cui sta. La famiglia lo ostacola, ma solo quando l’amico fraterno Stefano comincerà a interessarsi alla sorella Laura, sentirà forse per la prima volta tutto il peso delle differenze culturali e religiose.

Il titolo oltre a riferirsi alle lenti a contatto blu che indossa Nader, è un’esplicita citazione del componimento poetico di Pier Paolo Pasolini Profezia (1962-64), nel quale l’autore omaggiava la forza rivoluzionaria dei popoli sfruttati del terzo mondo. Tuttavia la storia di Nader e dei personaggi che ruotano intorno a lui è in realtà una filiazione del precedente film-documentario del regista, Claudio Giovannesi. Il terzo episodio di Fratelli d’Italia (2009) vedeva infatti protagonista proprio Nader, un ragazzo le cui vicende hanno appassionato Giovannesi, tanto da volerne fare il protagonista del suo secondo lungometraggio di finzione (dopo La casa sulle nuvole, 2009).




La sceneggiatura, scritta dallo stesso Giovannesi con Filippo Gravino è la rielaborazione dei racconti di episodi di vita realmente vissuti, dei protagonisti Nader e Stefano, due persone dunque, prima che dei personaggi, che si sono generosamente messe in gioco, offrendo all’artista e al pubblico il proprio vissuto e le proprie emozioni. Ne scaturisce un prodotto che pur rientrando nella categoria della finzione cinematografica, si muove sul filo del documentario, non solo perché mette in scena fatti e personaggi realmente accaduti, ma anche per lo stile di regia. Giovannesi ha optato infatti per la macchina a mano e le riprese perlopiù in continuità, che hanno consentito alla storia di rispettare i propri tempi.

Nel rispetto di questa volontà di pedinamento del reale - che ricorda molto il credo cinematografico neorealista di Cesare Zavattini, anche per l’impiego di attori non professionisti - d’accordo con Giuseppe Trepiccione, che ha curato il montaggio, i tagli sono stati ridotti al minimo e quando possibile le riprese sono state effettuate con una soltanto delle due macchine da presa solitamente impiegate, in modo da girare in piano sequenza. A manovrare la prima camera c’era Guido Michelotti, mentre la seconda era affidata a Daniele Ciprì, direttore della fotografia.

Questi si è mosso in una duplice direzione: nelle riprese in esterni ha privilegiato la luce naturale, mentre negli interni e nelle scene notturne, ha optato per una luce livida e molto contrastata, intendendo così aderire alla realtà emozionale del film, oltre che a quella di luoghi, fatti e personaggi narrati. Nella stessa direzione documentaristica vanno l’impiego del suono in presa diretta e la scelta di location comprese nell’area ostiense e dintorni, la zona dalla quale provengono i veri Nader e Stefano: ogni luogo, spiega il regista, è stato accolto nel film insieme ai suoi reali attori, così come Brigitte e i genitori di Nader sono interpretati dagli originali, nella parte di se stessi. Proprio il fatto di fare di sé una finzione da interpretare ha costituito la maggiore difficoltà, professionale ed emotiva del recitare in un film, per gli interpreti non-professionisti che gli hanno dato vita.




Nader, Stefano e i loro amici per Giovannesi incarnano oggi gli “Alì dagli occhi azzurri” cantati da Pasolini, una realtà che non si tratta tanto di accettare, quanto piuttosto di riconoscere come ricchezza della moderna società multietnica nella quale l’Italia si sta trasformando. Intenso ed emozionante, Alì dagli occhi azzurri non prospetta soluzioni, né una vera e propria conclusione: abbiamo fatto un tratto di strada con il protagonista, dobbiamo lasciarlo andare, come lo scorrere della vita; dunque il film non poteva che concludersi così, con un finale aperto sul futuro.





Alì ha gli occhi azzurri
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