Un enfant de toi… chi sia poi questo “toi”, non lo sa neppure la madre e lo scopriremo, insieme ai protagonisti, solo alla fine del film, dopo tanto riflettere. Aya (Lou Doillon) ha avuto una figlia, Lina (Olga Milshtein), da Louis (Samuel Benchetrit), che però adesso sta con Gaëlle (Marilyne Fontaine), una studentessa. Del resto anche Aya sta con Victor (Malik Zidi), dentista, e poi lei e papà sono separati da tanto tempo. E allora perché si vedono ancora? E perché dormono insieme? È normale tutto questo? Queste e altre domande si pone la perspicace Lina, sette anni, un visetto furbo e più discernimento di tutti gli adulti che la circondano messi insieme.
Centoquaranta minuti di confronto verbale tra Aya e Louis in primo luogo, ma anche tra Aya e Victor, e poi tra Victor e Gaëlle e perfino tra Victor e Louis metterebbero a dura prova qualunque spettatore. Un risultato sì e no voluto dal regista Jacques Doillon. In effetti, pur attenendosi strettamente al copione, ha lasciato che a guidare la temporalità del film fosse anche e soprattutto il confronto con gli attori, per cui il tempo dedicato ad ogni scena scritta, si è dilatato o accorciato in sede di ripresa, inaspettatamente. Ciò senza tuttavia lasciare alcuno spazio allimprovvisazione. Persino le battute della piccola Lina, dotata di una verve naturale che cattura lattenzione al di là dei dialoghi e che pertanto sembrerebbero frutto di invenzione estemporanea, sono in realtà tutte ascrivibili al copione. Dunque in questo senso si potrebbe dire che leffetto di esasperazione del pubblico non era assolutamente voluto, dato che la regia ha lasciato un certo spazio anche alla casualità. Eppure, proprio attraverso quelle interminabili schermaglie verbali - fatte di accuse, rimproveri, concessioni e sottrazioni, baci e spinte - passa il senso di tormento interiore dei protagonisti e di Aya in primo luogo. Certo a tratti la tentazione di lasciare Aya - e la sala - al suo cortocircuito di domande - sempre le stesse - senza risposta, indecisa se scegliere di affidarsi alle amorevoli cure di Victor o alla passione per linaffidabile Louis, è forte. Ma emerge da quei dialoghi una sincerità, come rileva la stessa Lou Doillon, che è quella di esprimere lambiguità, una cifra che firma la contemporaneità, priva comè di valori autoconclusivi, capaci di fornire risposte univoche. La vita è invece fatta, oggi più che mai, di incertezze e di una fenomenologia emotiva instabile, nella quale un sentimento un attimo dopo può trascolorare nel suo opposto e sarebbe ipocrita e infantile credere in risposte uniche e definitive. In questo senso il film non fa che dare conto di questa verità, per quanto fastidiosa, estenuante e anticinematografica sia. E dunque, guardato da questo punto di vista, leffetto di affaticamento dello spettatore era voluto e raggiunto.

Lalternanza di scene caratterizzate da una spiccata fantasia a scene che ne difettano è per Doillon imputabile in un certo senso a due influenze, che convivono in lui come due anime cinematografiche differenti: da un lato Woodie Allen, dallaltro Ingmar Bergman. In effetti si riscontrano i sintomi di questa oscillazione: a stemperare i toni e impedirci di lasciare la sala in preda allo sdegno intervengono puntualmente dei momenti di “decontrazione”, in corrispondenza delle scene delle quali è protagonista Lina, che col suo sguardo infantile ma molto acuto, semplifica quello che agli adulti intorno a lei viene naturale complicare. Diretta, furbetta e un po civettuola, è semplicemente incantevole, nellirresistibile interpretazione della piccola Olga Milshtein, che da sola varrebbe la visione del film. Se ne desume una temporalità fatta di un perenne ritorno (Nietzsche insegna), che sembrerebbe destinato a non avere mai fine. Molto convincente anche linterpretazione di Lou Doillon, figlia del regista, che dà ad Aya un profilo sofferto, attraverso uninterpretazione tuttavia minimalista, che punta tutto sullo sguardo e le tensioni del corpo, perennemente in movimento perché tormentato come la psicologia del personaggio, lacerato nellincertezza di un triangolo amoroso il cui epilogo a pensarci bene era evidente fin dallinizio.
Per cogliere gli spasimi dei corpi - e degli animi - sofferenti dei protagonisti Doillon ha impiegato due macchine da presa ricorrendo perlopiù al piano sequenza, cui le riprese in digitale consentono una durata sempre più dilatata ed è proprio questo metodo di ripresa in continuità che probabilmente favorisce il lavoro con gli attori, fondamentale per Doillon, che rifugge da una pedissequa riproduzione della sceneggiatura (pur non indulgendo nellimprovvisazione). Qualcosa che, afferma Doillon in un aperto ma rispettoso atto daccusa alla nouvelle vague, è mancato a quel cinema e a Rohmer in particolare, autore che pure stima. Evidentemente Doillon vi individua oggi quello che avverte come un cinéma de papa, dal quale sente di dover prendere le distanze, pur conscio degli innegabili caratteri ereditari. Pertanto anche lombra lunga di Jules et Jim (François Truffaut, 1962) è da intendersi come appunto solo unombra, qualcosa che si vuole già metabolizzato e superato, benché non rinnegato. Doillon completa quella che si profila a questo punto come una vera e propria dichiarazione di poetica, asserendo che si sente più vicino agli autori classici del cinema - “etichetta” che appone a Ingmar Bergman ed Elia Kazan, ad esempio - nella misura in cui lo interessano i film di sentimenti e si contrappone dunque in modo netto a un cinema “meno affettivo”, che esula dalla sfera emotiva: il cinema dazione tout court ad esempio, per intendersi.
Ed è probabilmente la stessa modalità di ripresa in piano sequenza che consente al regista di creare dei personaggi “liberi”, che lascia cioè allo spettatore senza propinare lezioni morali: nella ripresa di lunga durata lo spazio muta e il personaggio ha il tempo di trovare una vita sua, al di là dellinterpretazione tendenziosa dellautore.
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