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Canadian Argo

di Elisa Uffreduzzi
  Argo
Data di pubblicazione su web 12/11/2012  

Che il film si basa su una storia vera è una didascalia a chiarircelo, prima ancora che comincino a scorrere le immagini, instaurando così fin dall’inizio quel clima di tensione che lungo la narrazione andrà crescendo fino al parossismo. La storia in questione è quella di Antonio Mendez (Ben Affleck), un agente della CIA che nel 1980 riportò a casa sani e salvi sei dipendenti dell’ambasciata USA a Tehran, sfuggiti ai militanti durante la rivoluzione iraniana del novembre 1979, inscenando la finta produzione hollywoodiana di un film di fantascienza: i sei americani sarebbero scappati fingendosi una troupe cinematografica canadese in cerca di location per il film. Rimasta ignota fino al 1997, quando fu declassificata dal presidente Clinton, questa vicenda ha dell’incredibile e perciò stesso stupisce come solo la realtà sa fare, quando supera la fantasia. L’operazione, pubblicamente nota come “Canadian Caper”, è stata tradotta in sceneggiatura da Chris Terrio, attingendo a fonti come The Master Of Disguise (2000) di Antonio J. Mendez e l’articolo di Joshuah Bearman The Great Escape, pubblicato sul magazine «Wired» e se il film può contare su un nucleo narrativo già di per sé solido, cinematograficamente a fare la differenza è la regia di Ben Affleck che, giunto alla sua terza esperienza dietro la macchina da presa (dopo Gone Baby Gone, 2007 e The Town, 2010), dimostra una spiccata consapevolezza del mezzo cinematografico.

Affleck alterna sapientemente macchina a mano (nelle scene in casa dell’ambasciatore canadese), dolly (in quelle ambientate a Washington), zoom (in quelle a Hollywood) e riprese in 16 mm e in Super 8 (ad esempio nella sequenza dell’assalto alla Roosevelt Gate dell’ambasciata statunitense), creando così una partitura visiva di notevole impatto. A delineare una vera e propria cifra stilistica sono però due caratteristiche in particolare: da un lato il regista dimostra di prediligere i movimenti di macchina al secco stacco di montaggio, conferendo così alle riprese una sorta di moto perpetuo che sottrae “invisibilità” alla macchina da presa, dall’altro è la dinamica interna dell’inquadratura a controbilanciare il virtuosismo della camera, vedremo come. Laddove un semplice stacco di montaggio – ad esempio tra inquadratura del personaggio ripreso di spalle e inquadratura dello stesso visto frontalmente – sarebbe sufficiente, la macchina da presa gli gira intorno descrivendo un arco di 180° e, più in generale, i movimenti di macchina pervadono l'intera trama visiva del film, dove si ricorre al semplice taglio solo quando indispensabile (nel campo-controcampo ad esempio). Una strategia registica che, pur di indubbio fascino, rischierebbe di annegare nel manierismo fine a se stesso e tramutarsi in un autogol, se non intervenisse la dinamica interna al quadro a riequilibrare la componente “naturalista”.  Una dinamica data non già dallo spostamento del personaggio all’interno del quadro, quanto piuttosto da variazioni di messa a fuoco, che “si fanno sentire” come le traballanti riprese di un reportage fortuitamente girato sul campo. Questo è vero ad esempio nelle già menzionate inquadrature all’interno della residenza dell’ambasciatore canadese: qui all’uso della macchina a mano si aggiunge la variazione di messa a fuoco, ovvero l’obiettivo “trova” il punto di fuoco interno al quadro solo in un secondo momento, ottenendo così il paradossale “effetto reportage” che recupera credibilità alla regia, nel momento stesso in cui tradisce la propria presenza. Le riprese funzionano così come in pittura, dove sono i contorni imprecisi a restituire realismo alla figura, in luogo delle linee nette. Altrove il realismo è invece ricercato attraverso la fotografia sgranata (ottenuta mediante l’impiego del Super 8), nelle riprese della folla ad esempio, o mediante immagini di repertorio dell’epoca. Un mix di inquadrature di diversa natura, che il montaggio di William Goldenberg ha avuto il merito di riunire in un tutto coerente. La fotografia di Rodrigo Pietro ha fatto il resto, dando un look peculiare ad ogni diverso set, senza per questo conferire un aspetto disordinato al film. Dai colori saturi anni settanta delle scene hollywoodiane, a quelli più sbiaditi delle riprese mediorientali, ogni location conserva la sua caratterizzazione scenografica e fotografica, pur amalgamandosi nel complesso armonico del film. Particolarmente apprezzabile l’uso del suono, ad esempio nelle scene finali in cui alle concitate inquadrature della finta troupe che si appresta alla fuga, si sovrappongono i nervosi dialoghi a Washington, laddove se ne decidono le sorti e a questi si mescolano le cronache dei telegiornali, in un patchwork sonoro-visivo molto suggestivo. Un po’ troppo roboanti invece le musiche di Alexandre Desplat: i brani orchestrali appesantiscono e in un certo senso banalizzano il film, poiché sottolineano in modo “vistoso” e prevedibile i vari crescendo di tensione.

Dal punto di vista della recitazione, Affleck se non ha saputo rinunciare a fare narcisisticamente di sé il protagonista, per il resto del cast ha puntato più sulla somiglianza fisica degli interpreti che sui nomi di grande richiamo, verosimilmente riducibili a John Goodman (nel ruolo del celebre truccatore hollywoodiano John Chambers) per il grande pubblico. Il risultato è un ensemble di bravi professionisti, cui avrà giovato – chissà – l’aver trascorso una settimana di reclusione nella casa-location del film, isolati dal resto del mondo e in stanislavskijana full immersion nell’atmosfera seventies del film. Una menzione a parte merita Alan Arkin (nel ruolo del produttore Lester Siegel), metonimia di tanti miles gloriosi della produzione hollywoodiana e insieme capace di infondere al suo personaggio quello humour sornione che lo contraddistingue fin dalla sceneggiatura. Un elemento, quello dell’ironia, che descrive brevi momenti di “defaticamento” all’interno del crescendo ansiogeno di Argo.

Particolarmente gradevole il prologo esplicativo che apre il film, espediente narrativo utile a descrivere il contesto storico-politico in cui si svolgono i fatti, che rinuncia a dissimulare ipocritamente la propria funzione, facendo della sua stessa natura didascalica una carta vincente: le riprese originali dell’epoca si miscelano alle vignette di uno storyboard, mentre la voce fuori campo dà voce alla cronaca.

Peccato per il finale, che indugia esasperatamente sul post-conclusione della “Canadian Caper”: certo, l’aver protratto la narrazione oltre un lieto fine trionfale ad alta quota (e sottolineato dalle enfatiche musiche di Desplat) è una scelta apprezzabile, ma la sequenza finale di Affleck/Mendez nella dolce intimità della famiglia con tanto di pargolo che si addormenta accoccolato a lui, è decisamente stucchevole, ancor più se si pensa che a giustificarla è solo il fine di chiudere il film con l’inquadratura di uno storyboard, proprio come si era aperto. Una trovata carina ma narcisisticamente fine a se stessa.

Il titolo Argo, che è anche – metalinguisticamente – quello del film (mai girato) nel film, rievoca il mito dell’omonima nave sulla quale Giasone e gli Argonauti partirono alla conquista del vello d’oro, qui rimpiazzato dalla “troupe” da rimpatriare. È la sceneggiatura stessa a suggerirlo a un certo punto, quando alle insistenti domande di un giornalista sul significato del titolo, Arkin/Siegel risponderà laconico e irriverente, mandando a quel paese Argo e giornalista insieme. Prenderemo in prestito quell’eloquente espressione per dire che sì qualcosa si poteva fare meglio, ma non cambia la sostanza di un film di gran lunga superiore alla media.





Argo
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