Il bosco, il nano cattivo, la spada invincibile, il drago, luccellino incantato, la ricompensa finale: gli ingredienti della fiaba nel Siegfried ci sono tutti. È la prima volta che accade nel Ring. Se nel Rheingold prevale lelemento epico dello scontro primordiale tra forze contrapposte (gli dèi, i giganti, i Nibelunghi), e nella Walküre quello tragico della sconfitta di Wotan e del sacrificio di Brünnhilde, nel Siegfried, per raccontare linfanzia dellumanità, Wagner ricorre invece alle ‘tinte e alle forme narrative della fiaba. Una fiaba moderna, però, in cui leroe è alla ricerca di sé in modo esplicito e consapevole: per diventare uomo Siegfried vuole sapere chi è, vuole imparare cosa sia paura, non attendere, come Pollicino, che gli capitino eventi e incontri inattesi e rivelatori. E nella fiaba delluomo moderno non è più un drago la prova suprema: il passaggio terribile e decisivo nel percorso di conoscenza di sé è la conquista delleros, la separazione definitiva dellimmagine interiore della Madre amata da quella reale della donna da amare. Solo così il giovane Siegfried può alla fine diventare adulto. Scriveva Thomas Mann, e non a caso, «psicanalisi, nullaltro che psicanalisi» a proposito della seconda ‘giornata del Ring.
Limportanza della componente psicanalitica è evidente nella lettura scenica del regista Guy Cassiers. Per lui Sigfrido è un ragazzo contemporaneo, in anfibi, pantaloni e giubbotto di pelle e chioma fluente; un bulletto irruento e sconsiderato insomma (costumi di Tim van Steenbergen); anche il drago è un mostro ‘moderno, una proiezione dellinconscio, reso con un lenzuolo che si agita, avviluppa, gonfia ma che si dissolve nel nulla una volta trafitto (animato da cinque danzatori; coreografie di Sidi Larbi Cherkaoui). Tutto si svolge in una decadenza postindustriale in cui sono evidenti i riferimenti alloggi. Lesuberanza violenta di Sigfrido è lunico guizzo di vitalità in questo squallore, lunica speranza nella desolazione che lo circonda. La scena è dallinizio cupissima: la grotta di Mime è un laboratorio arrugginito rischiarato da lugubri neon (è ciò che resta della fabbrica di Alberich vista nel Rheingold; scene e luci di Enrico Bagnoli); metallica è pure la foresta in cui non alligna più quasi nemmeno il verde delle foglie, evocate dalle fragili proiezioni allinterno di cavi intrecciati e sospesi (videoproiezioni di Arjen Klerkx e Kurt dHaeseeler). La luce arriva invece solo nella scena finale, quando Siegfried avrà compiuto il suo cammino di conoscenza, e imparerà con Brünnhilde a temere e ad amare.
Come nelle puntate precedenti, Cassiers demitizza e allo stesso tempo despettacolarizza la saga wagneriana. Limmaginario fantasy non lo interessa, come è evidente dalluso di tecnologia allavanguardia, ma con scarsa propensione agli effetti speciali. Lesito di questa lettura castigata non è però sempre efficace. Infatti, alla fine risultano più persuasive proprio le scene meno caratterizzanti di questa regia, quelle in cui Cassier ‘cede – saggiamente ‑ al meraviglioso. Ciò accade, per esempio, nella seconda scena del primo atto: Siegfried riforgia la spada Notung sulla pedana metallica che si ribalta gradualmente, tra bagliori di neon e proiezioni di fiamme sempre più violente. Al contrario, il risveglio di Brünnhilde, punto fondamentale nel percorso di autoconoscenza delleroe, si svolge in uno spazio sì finalmente illuminato, ma in cui la scena non si fa interprete dellintensità emotiva e drammatica del momento, anzi, pare che il regista di fronte a questa intensità ora davvero umana mostri un imbarazzato (spaventato?) distacco. E alla fine per tutta la durata del duetto si ha un po limpressione che Siegfried e Brünnhilde si aggirino sul palco, senza essere troppo convinti di quello che fanno.
Tuttaltra la tenuta della parte musicale. Siegfried è meno uniforme delle altre opere del Ring: Wagner vi rifuse infatti elementi ‘buffi (il personaggio di Mime, ma anche Fafner, secondo la letteratura più recente) che, se da una parte arricchiscono la tavolozza espressiva della partitura, dallaltra possono generare cadute di gusto nella caratterizzazione dei personaggi e delle situazioni meno ‘sublimi e quindi giudicate meno tipicamente ‘wagneriane. La lettura di Daniel Barenboim è stata perfetta tanto nel trarre vantaggio dalle discontinuità della scrittura, quanto nellequilibrio dei pesi orchestrali, nello slancio delle frasi, nella complessità dei colori. Quello che a volte la scena negava, arrivava dalla buca con generosità: niente misticismi o spiritualizzazioni, ma suono, pieno e tanto. Molto positiva la prova dei protagonisti, pur con qualche diseguaglianza. Lance Ryan (Siegfried) ha cantato una delle parti più impossibili del teatro lirico, e lha fatto arrivando alla conclusione senza segni di stanchezza, il che è già degno di ammirazione. La sua è una voce chiara, non molto potente ma ben proiettata, è ideale per un Siegfried che voglia anche ‘suonare giovane; tuttavia, il timbro a tratti tagliente ha fatto risaltare meno laspetto eroico del personaggio, rendendolo dal punto di vista vocale un po troppo simile al tenore anti-eroe Mime. Nina Stemme ha risorse tecniche tali da riuscire a essere espressiva nellaltra parte impossibile dellopera, Brünnhilde, che, a differenza di Siegfried deve giocarsi la serata in solo mezzora di musica (e che musica!). Peter Bronder (Mime) è un tenore dalle grandi capacità interpretative e attoriali (come ci si aspetta da chi riveste i panni del nano malefico), ma anche con mezzi vocali considerevoli, cosa non scontata per un cosiddetto ‘caratterista, e giustamente premiata dagli applausi del pubblico. Benissimo anche gli altri Terje Stevensvold (Der Wanderer), Johannes Martin Kränzle (Alberich), Alexander Tsymbalyuk (Fafner), Rinnat Moriah (Stimme des Waldvogels). Solo la prova di Anna Larsson (Erda) è apparsa sfocata, evidentemente la cantante non è a suo agio nellingrata tessitura grave della parte.
Teatro gremito e grande successo, con un pubblico attento ed entusiasta, anche per quella che storicamente è sempre stata la ‘giornata del Ring meno popolare in Italia.
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