«Condannati al paradiso», definiva Schönberg negli anni Trenta quei musicisti austro-tedeschi (lui incluso) che, abbandonata la propria patria per motivi politici o razziali, venivano accolti a braccia aperte da unAmerica che sapeva ben ripagarli pure finanziariamente. Non fu troppo dissimile, un secolo prima, il rapporto di Jacques Offenbach con la Francia: il satirico cantore di (piccoli) vizi privati e (minime) pubbliche virtù del Secondo Impero era ebreo tedesco di Colonia, e se diventò parigino fino al midollo – conversione al cattolicesimo e ricevimento della Legion dOnore inclusi – fu pure perché sono le società opulente a permettersi di finanziare i loro sbeffeggiatori più irriverenti. Che poi il dileggiatore, come il giullare verso il suo monarca, sia connivente con il “sistema” che mette alla berlina rientra nelle regole del gioco.
Stando così le cose è divertente e istruttivo assistere a Linz – nel grazioso ma ormai troppo minuscolo teatro in pieno centro, che tra qualche mese sarà sostituito da un grande edificio ultramoderno affacciato sul Volksgarten – a una Vie parisienne trasformata in Pariser Leben: ascoltare nellidioma di Goethe la più parigina delle operette offenbachiane è un filtro che ci riporta a quellocchio esterno (da tedesco emigrato, appunto) con cui Offenbach osservava lambiente che andava a raccontare. Sotto questaspetto, lo spettacolo della regista Adriana Altaras e della sua drammaturga Julia Zirkler da un lato mutua alcune trovate dallormai celebre (e documentato in dvd) spettacolo di Laurent Pelly a Lyon, ma, dallaltro, se ne discosta proprio perché quella messinscena aveva il suo limite in un “eccesso di francesità”: un racconto narrato da parigino, anziché da un cronista distaccato come Offenbach, con la sotterranea pretesa di trasformare il microcosmo della Gare de lOuest e del Café anglais in un gran teatro del mondo.
Un momento dell'opera
Daltronde, in lingua originale o tradotte le operette di Offenbach restano drammaturgicamente poco più dun canovaccio, a maggior ragione in un lavoro a siparietti paratattici come La vie parisienne. Le variazioni sul tema qui escogitate per il pubblico austriaco sono senzaltro congrue: il netto prevalere del tono farsesco su quello satirico non sbilancia il meccanismo di uno spettacolo che “gira” sempre molto bene; i giochi erotici tra calzolaio e guantaia, che impaginati da mano meno leggere della Altaras e della Zirkler potevano apparire forzati e antiumoristici, pennellano un sadomaso ludico e burlesco; e lambientazione in abiti moderni mostra come la presa in giro del mito di Parigi – lo sciovinismo dei suoi cittadini, le sue delizie amorose vagheggiate dai viaggiatori stranieri – resti valida in tutte le epoche. Semmai dispiace vedere (ma un po ce la siamo cercata) i consueti luoghi comuni sullItalia: nella pagliaccesca festa del terzo atto un fantomatico ospite italiano si chiama Don Silvio, e raccomanda «eine grosse Bunga Bunga».
Anche la lettura musicale di Marc Reibel si prende le sue libertà: via louverture, dentro il proverbiale can-can tolto di peso da Orphée aux enfers, assoli di fisarmonica per fare couleur locale parigina, il personaggio del plutocrate brasiliano – insignito dellaria forse più ardua della partitura – viene affidato allottimo attore Günter Rainer, che trasforma il ruolo in una sorta di deus ex machina ma, arrivato allinsidioso appuntamento vocale, semplifica la scrittura e si munisce di microfono. Ciò che più si avverte nella concertazione, però, è il tentativo di creare un filo rosso tra Offenbach e la grande operetta viennese: recuperando una visione razionalistica della forma allinterno dellanarchia strutturale offenbachiana; evidenziando sensualità e nostalgie tra le maglie del compulsivo scoppiettare buffonesco; restituendo nel loro spessore di musica “alta”, senza lasciarsi depistare dallunderstatement civettuolo caro a Offenbach, pagine come il grido di battaglia amorosa del barone e la scena della lettera di Metella. La splendida Bruckner Orchester Linz – organico sfoltito come si conviene allopéra-bouffe, ma ricchezza di suono da grandi occasioni – risponde con classe alle sollecitazioni della bacchetta, vibratile nei fiati e compattissima negli archi.
Un momento della messinscena
Nel cast spicca la coppia baronale svedese in trasferta a Parigi: statuaria lei, dinoccolato lui, Frauke Schäfer e Horst Lamnek sono un soprano e un baritono in fertile contrasto, con la sensualità serena e il canto brillante ma composto delluna e il lirismo aggressivamente brioso dellaltro. Il tandem dei due amici buontemponi, artefici delle più surreali mascherate pur di sedurre questa o quella, era invece formato da Iurie Ciobanu (buon attore dindole cabarettistica e garbato tenore di grazia) e Matthäus Schmidlechner (altrettanto sciolto in scena, ma cantante assai più pallido). Resa lode al trasformismo dellaltro tenore, Sven Hjörleifsson, che si fa carico di più parti anche se, sotto il profilo canoro, il ruolo con cui simpone è quello del calzolaio mandrillo, restano i tre personaggi femminili oggetto di desiderio. Luna guantaia, laltra cameriera, Elisabeth Breuer e Antoaneta Mineva tratteggiano due figurine piccanti e accattivanti: la prima ha assai più spazio, anche se è la seconda a poter contare su uno strumento più gradevole e omogeneo. Minore empatia suscita invece il mezzosoprano Katerina Hebelkova come Metella, troppo rigida – vocalmente e scenicamente – per stemperare tutta la sensualità e la malinconia di questa “facile”, ma dignitosissima grisette.
Una manciata di caratteristi (e soprattutto caratteriste) scatenati, che conoscono larte di far divertire il pubblico divertendosi, completa la nutrita locandina, cui si aggiunge anche un piccolo gruppo di danzatori. Le coreografie di Stephan Brauer hanno anzi un peso decisivo nellimpaginazione dello spettacolo, dando vita a un melting pot tersicoreo dove cè spazio pure per il caschè: ultimo tango a Parigi?
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