Messo un po in disparte dal successo del suo concittadino Puccini, e stroncato dalla tisi non ancora quarantenne, tra gli operisti della “giovane scuola” Alfredo Catalani resta quello più in credito con la Storia; e oggi, in tempi di rimozione estetico-ideologica di quel repertorio (un danno enorme per la nostra memoria musicale), andare a Innsbruck a vedere La Wally non offre solo il piacere diciamo così geografico di assistere a unopera di ambiente tirolese proprio nella capitale del Tirolo: la trasferta ha il sapore della riappropriazione dun cimelio di famiglia, qualcosa che apparteneva al nostro lessico e ora appare quasi esotico. Daltronde, in quegli anni di alpinismo pionieristico (Wally va in scena nel 1892), per il pubblico italiano una vicenda del genere doveva avere un retrogusto di esotismo.
Riascoltata oggi senza primedonne mattatrici alla Olivero o alla Tebaldi, più che per la teatralità (suggestiva, ma molto fin de siécle) e gli involi melodici (struggenti, ma di breve respiro) lopera si gode soprattutto per i valori strumentali: facendo apparire evidente come con Catalani al contrario del “terzo incomodo” toscano tra lui e Puccini (Mascagni, ovviamente), e forse anche del Giordano meno ispirato limpeto non scantona mai in faciloneria, né lenfasi va a scapito dellapprofondimento. Verista più per area generazionale che per convinzione estetica, e intimamente wagnerista nel tendere a una campata musicale unitaria pur mantenendo pezzi chiusi ben enucleabili, Catalani andrebbe insomma ricollocato, prima ancora che rivalutato: e unorchestra austriaca o tedesca, sotto questaspetto, offre maggiore idiomaticità. Quella del Tiroler Landestheater ha la compattezza e la duttilità necessarie, mentre il suo direttore Alexander Rumpf è sensibile quanto basta per trasmettere la percezione che, se nella Wally le voci veleggiano spesso sui lidi del declamato, la maggior cantabilità spetta proprio allorchestra. Inoltre, essere eseguite dai complessi di un teatro davvero tirolese consente alle pagine di couleur locale lo Jodler, il Ländler di non aver nulla di cartolinesco, riappropriandosi della dimensione da esercizio di stile, visionario e quasi onirico, con cui Catalani le aveva concepite. E se i due preludi hanno il debito spessore sinfonico, il quartetto del secondo atto rivela in Rumpf una bacchetta flessibile: capace di sciorinare con ritmo cangiante, ma senza dispersioni, la leggerezza ironica della pagina.
Sophie Mitterhuber (Walter), Melanie Lang (Afra), Paulo Ferreira (Giuseppe Hagenbach), Johannes Wimmer (Alter Soldat)
Il dualismo musicale tra arioso e declamazione appare dunque ben risolto, ma resta il problema del dualismo drammaturgico: chi è, nella sostanza, Wally? Una valchiria delle Alpi? O una creatura più patetica e gentile, fragile sotto la scorza da maschiaccia e, forse, sotterraneamente sessuofobica? Il libretto di Illica inclina a questo secondo ritratto, il romanzo di Wilhelmine von Hillern che ne è alla radice protende verso la prima ipotesi a cominciare dal titolo Der Geier, ovvero lavvoltoio, per indicare la protagonista e corrobora la tesi di una Wally-Brunilde con una serie dimplicazioni protopsicanalitiche (quel padre vecchio e orrendo che, dettaglio omesso nellopera, avrebbe voluto un figlio maschio
). Catalani, del suo, offre una risposta ambigua: la drammaturgia vocale di Wally parte allinsegna del puro abbandono lirico con il celebre (almeno un tempo) Ebben? Ne andrò lontana, ma nel prosieguo tensioni e asperità canore suggeriscono tuttaltra fisionomia. Anche se il rammarico dellautore di aver avuto, alla première, una protagonista a suo avviso troppo compassata (era limpeccabile Hariclea Darclée, Catalani avrebbe preferito la meno rifinita e più temperamentosa Gemma Bellincioni) sembra un indizio in favore di una Wally più tagliente che sentimentale.
Pure il sentimento della natura che permea lopera, e contribuisce anchesso a fare di Catalani un musicista più tedesco che italiano, non è privo di ambiguità: si trascolora dallincantamento rarefatto alla violenza la micidiale valanga di neve su cui cala il sipario di una natura inequivocabilmente matrigna. Il regista Johannes Reitmeier e la sua drammaturga Susanne Bieler non sembrano aver dubbi sul carattere sinistro della Wally: la doppia morte che la conclude, qui preannunciata in muto flash-back prima che il direttore alzi la bacchetta, non ha nulla di catartico ed è solo linevitabile conseguenza di una vicenda popolata da personaggi illividiti su uno sfondo tenebroso. Sul piano della resa visiva, però, lalternanza di calligrafico e visionario che informa la messinscena non si traduce in ulteriore, fertile dualismo, ma è a un dipresso dal naïf: i mimi camuffati da mostri delle nevi quasi degli yeti himalayani sono per lo spettatore fonte di perplessità più che dinquietudine, anche se sostituire la slavina finale con un loro mortifero abbraccio è, in astratto, un buon colpo di teatro. Più interessante il lavoro sui deuteragonisti: la solitudine del piccolo Walter viene sottolineata da una deformità fisica; il ruolo superfluo e ingombrante del Pedone variante nostrana del Wanderer tedesco è riscritto facendone un vecchio soldato alcolizzato e teppista, specchio dellanima nera che alligna in ogni comunità bonaria e ridente; e proprio grazie a lui si riempie il “buco” del libretto relativo al personaggio di Gellner, che scompare dopo il terzo atto e qui viene giustiziato, più per alticcia ferocia che per convinzione, dallanziano militare.
Stromminger (Marc Kugel), Paulo Ferreira (Giuseppe Hagenbach), Susanna von der Burg (Wally). Ensemble
Con leccezione del tenore Paulo Ferreira, che dà lidea di aver studiato il personaggio di Hagenbach ricalcando pedissequamente Del Monaco nellincisione del 1968 (ossia un cantante fuori del comune per naturalia vocali, quindi inimitabile, e in una fase di pieno declino, dunque tanto più pericoloso da imitare), il cast farebbe onore a qualsiasi teatro italiano. Susanna von der Burg è una protagonista in taglia di soprano drammatico, ma né appesantita né sovradimensionata nei momenti lirici; e sebbene il temperamento faccia pensare più alla rifinitura tardoromantica della Darclée che al verismo sorgivo della Bellincioni, il suo fraseggio sempre calzante ed espressivo avrebbe soddisfatto anche Catalani. La tessitura dellarioso Tamo ben io, concepita per baritoni di estensione e squillo paratenorili, mette un po a disagio Bernd Valentin, che nella solidità del registro centrale gioca le carte migliori; la sua emissione robusta e il suo accento contegnoso, però, si confanno a un personaggio come Gellner, coraggioso ma debole, passionale ma introverso. Sophie Mitterhuber incarna ladolescente Walter con sensibilità e compenetrazione, sicché linterprete lascia in secondo piano qualche disuguaglianza della vocalista.
Melanie Lang, negli scialbi panni di Afra, è più defilata, ma sa ritagliarsi il suo spazio nel quartetto. E i due bassi sono caratteristi di spessore protagonistico, come si convengono al vecchiaccio papà di Wally e al Pedone (o soldato che dir si voglia): luno interpretato da Marc Kugel con discrete qualità di cantante e ottimo talento di attore, laltro da Johannes Wimmer, che si cala con convinzione nella riscrittura drammaturgica di questo personaggio facendone un cammeo memorabile, e anche qualcosa di più.
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