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L’amore nonostante

di Elisa Uffreduzzi
  Amour
Data di pubblicazione su web 30/10/2012  

Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (Jean-Louis Trintignant) sono due ottantenni ex-insegnanti di musica, che trascorrono serenamente la loro vecchiaia a Parigi; ogni tanto vanno a un concerto (vedi la lunga inquadratura metalinguistica in cui ci troviamo faccia a faccia con la platea teatrale), di rado viene a trovarli la figlia Eva (Isabelle Huppert), concertista perennemente in tournée. Con Amour  (Palma d’oro al 65° Festival di Cannes), Michael Haneke mette in scena – da maestro qual è – un altro thriller sui generis.  La definizione è un po’ ardita ma non azzardata, poiché Amour cela dietro il dramma sentimentale, dietro una docu-fiction sulla terza età ai tempi di facebook e dietro la raffinata commedia alto-borghese che a tratti emerge dai dialoghi taglienti, un thriller in piena regola. E lo fa alla maniera di Haneke: dissimulando il crescendo ansiogeno dietro la tranquilla atmosfera casalinga di partenza. Un meccanismo qui più rarefatto, altrove portato alle estreme conseguenze (si pensi alle due edizioni di Funny Games, 1997 e 2007 o al film Il nastro bianco, 2009), ma che Haneke dimostra di saper manovrare ormai con grande dimestichezza. Il thriller emerge sfacciatamente almeno in due sequenze: quella dell’incubo notturno di Georges (che rasenta l’horror) e quella dell’omicidio, che ha meno a che fare con l’eutanasia e più con l’esasperazione e la rabbia di un uomo incapace di sopportare il decadimento fisico e psicologico della moglie, nonostante gli sforzi evidenti e commoventi. Il gesto repentino e del tutto inatteso irrompe sullo schermo scioccando lo spettatore oltre che il protagonista, il quale rimane profondamente turbato nonostante l’apparente autocontrollo (inquietante la naturalezza con cui “seppellisce in casa” la moglie).

 


 



 

 

Altrettanto sconcertante è l’incipit del film: ci viene violentemente “sfondata in faccia” la porta di un appartamento, che scopriremo essere la location quasi esclusiva della vicenda ed entrano avanzando verso l’obiettivo della macchina da presa alcuni vigili del fuoco, mentre altri condomini rimangono sulla porta. Una breve perlustrazione rivela un cadavere amorevolmente circondato di fiori. Da qui in poi la narrazione prosegue in flashback fino all’omicidio e alla conseguente “sepoltura”. Quindi un’ellissi taglia la sequenza iniziale “al presente”, che non viene ripetuta in chiusura del flashback, di modo che la cronologia della scena conclusiva – in cui Eva torna nell’appartamento dei genitori dopo l’irruzione dei pompieri e che concettualmente farebbe parte della sequenza iniziale – non è immediatamente leggibile. Una scelta stilistica ostica dal punto di vista della diegesi, ma sicuramente più efficace a livello emotivo. Come la modalità con cui l’autore suggerisce la morte di Georges, sublimata in una scena onirica dai contorni incerti, che lascia il finale non del tutto risolto. Del resto quello del sogno si configura come una sorta di Leitmotiv del film, se tale si considera anche l’intermezzo pittorico in cui si snoda una serie di inquadrature ravvicinate e in dettaglio di dipinti – per lo più ridenti paesaggi assolati – creando così una pausa nel racconto, che sembra suggerire come di naturale nel modo in cui l’anziana coppia affronta la malattia, non vi sia niente. La natura appare solo filtrata dalle tele appese al muro, quella stessa natura che Anne non può più visitare e che appare rigogliosa ormai solo nella riproduzione senza tempo di un pittore, che l’ha così sottratta al ciclo della vita.

 


 



 

 

La regia volutamente piuttosto statica e tutto sommato parca di primi piani, indugia in modo spesso esasperante sulle difficoltà pratiche anche minime che intervengono nella sconvolta quotidianità di Anne e Georges, per cui i prolungati piani d’insieme sono funzionali a trasmettere in modo scarno, documentaristico, il senso della tragedia che si rinnova ogni giorno, ma anche la profonda solitudine dei protagonisti, laddove la macchina da presa indugia sugli ampi locali vuoti dell’appartamento, o vi disperde le figure intere, sopraffatte dallo spazio che le circonda. Sembra strano eppure – anzi proprio per questo – il thriller e il dramma fanno a meno della musica extradiegetica (i brani di Schubert, Beethoven, Bach e Busoni che sentiamo sono sempre interni alla narrazione), persino nei titoli di coda: una scelta di stile in cui sta la veemenza tragica e angosciante del film.

Il cast di mostri sacri ha fatto il resto: la recitazione disadorna di Jean-Louis Trintignant (Georges) sfocia nel minimalismo espressivo, in una sorta di distillato della compostezza borghese, di fronte alla quale giustamente s’indigna Eva: «vogliamo parlare seriamente un momento» dirà al padre incredula della sua rassegnazione apparentemente priva di accenti. Proprio Eva, interpretata da Isabelle Huppert, fa da contrappunto per ruolo e performance alla freddezza espressiva di Georges: in lei l’interpretazione è sbilanciata sul versante istintivo della recitazione naturalistica. Quanto a Emmanuelle Riva, è strabiliante come riesca a simulare l’ictus e la progressiva perdita delle facoltà motorie di Anne.

Sorge spontaneo a questo punto chiedersi dove sia l’amour evocato dal titolo: nella dedizione nonostante l’esasperazione, il thriller e la tragedia che malgrado l’amore si consumano.





Amour
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