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L'umore ferrigno e dolciastro della vita

Un sapore di ruggine e ossa
  Un sapore di ruggine e ossa
Data di pubblicazione su web 10/10/2012  
                                 

Ali (Matthias Schoenaerts), pugile dalle alterne fortune, si trova improvvisamente costretto a prendersi cura del figlio Sam, di cinque anni. Trovato lavoro presso la sicurezza di un locale notturno, conosce Stéphanie (Marion Cotillard), una bella istruttrice di orche che poco dopo il loro incontro perde le gambe in un terribile incidente sul lavoro. Per lei, snob e consapevole della propria avvenenza, si tratta di scoprire che la bellezza della vita ha anche altre forme; per lui, abituato a vivere di espedienti, arriva il momento della presa di coscienza del proprio ruolo di uomo adulto e di padre. Con Un sapore di ruggine e ossa, Jacques Audiard conferma il proprio stile narrativo, realizzando un film in cui ancora una volta sono due antieroi ai margini della società i protagonisti di una sorta di distillato del romanzo di formazione (si pensi a Sulle mie labbra, 2001 e Il profeta, 2009). In fin dei conti il percorso di Ali e Stéphanie altro non è che un iter di educazione alla vita e ai sentimenti.

 




 

La regia propone soluzioni visivo-narrative di pregio, tra cui quello che sembra un po’ il marchio di fabbrica di Audiard: l’uso di un’inquadratura in dettaglio quale metonimia e anticipazione della sequenza a seguire. Ne è un esempio – tra i frame iniziali – quello in cui viene presentato il piccolo Sam (Armand Verdure) attraverso una carrellata a precedere sui suoi piedi stretti nei sandali, mentre rincorre affannosamente il padre. Torna lo stesso stilema quando, verso la fine del film, inizia la sequenza dell’incidente sul ghiaccio: qui è il dettaglio di una ruota posteriore del camion sul quale viaggia il bambino a introdurre l’intera unità narrativa, “preannunciando” in un certo senso protagonisti e ambientazioni delle scene a seguire. Particolarmente suggestive le inquadrature subacquee, che ricorrono nell’incipit del film, poi nella sequenza dell’incidente di Stéphanie e in quella dell’incidente sul ghiaccio di Sam: anche in questo caso ritorna l’escamotage della “sineddoche visiva” che anticipa la narrazione seguente. Difatti le prime confuse inquadrature subacquee “sospese”, sulle quali emerge in sovrimpressione il viso di Sam dormiente – che ancora non conosciamo – non solo preannunciano la presentazione del bambino che seguirà poco dopo, ma anticipano in flashforward il finale, o se si preferisce trasformano l’intero film in una sorta di lungo flashback del piccolo Sam, definendo così una sorta di struttura circolare, allorché lo stesso particolare degli occhi chiusi del bambino torna tra le ultime inquadrature del film. Marion Cotillard è l’ottima protagonista del film, coadiuvata certo anche dai riusciti effetti speciali in digitale, che le “amputano” le gambe. La sua interpretazione misurata procede per sottrazione anziché “calcare la mano” su ovvi patetismi, gli stessi che rifugge il film.

Invece di ricercare pietismo e facili lacrime, Un sapore di ruggine e ossa racconta con semplicità l’insolita quotidianità che si costruiscono i due protagonisti, preferendo il gesto minuto e apparentemente insignificante ai fini della narrazione (si pensi alla scena in cui Ali porta Stéphanie a mingere), alle scene madri strappalacrime. Perfino nei momenti più drammatici il film sfugge al comodo sentimentalismo: è il caso dell’incidente di Stéphanie, risolto in un montaggio di dettagli e inquadrature acquatiche più ampie, caotico e frammentario; ma è anche il caso della tragedia sfiorata del piccolo Sam, in cui le urla disperate di Ali vengono attutite – nel loro impatto sia sonoro che emotivo – dalla prospettiva subacquea. Eppure proprio in questo sta la forza del film: la tragedia “in sordina” col suo silenzio lascia trasparire con maggior vigore il potenziale emozionale delle immagini. Non meno riuscita la prova attoriale di Matthias Schoenaerts, altrettanto minimale e volutamente incolore: l’indifferenza di Ali, altrove capace di “momenti di delicatezza” che la stessa Stéphanie gli riconosce, sta alla vicenda mostrata come la narrazione apparentemente sconclusionata del film sta alla vita. La scarna affabulazione del film restituisce infatti tel quel il naturale scorrere delle cose, per cui la Natura continua il suo corso, leopardianamente indifferente alle sofferenze umane e occorre adattarsi e reinventarsi per sopravvivere, in un andamento altalenante tra difficoltà quotidiane e gioie riscoperte. Il reale procedere esistenziale è fatto più di piccoli eventi casuali che di grandiose scene hollywoodiane e i suoi attori non sono mai dipinti a colori saturi, ma sempre sfumati in un chiaroscuro psicologico che stempera pregi e difetti confondendone i confini.

 




 

Un sapore di ruggine e ossa dà prova di una prospettiva matura sugli eventi narrati, della quale è corresponsabile la fotografia “cruda” di Stéphane Fontaine, particolarmente apprezzabile nelle già citate riprese sott’acqua.

Libero adattamento della raccolta di racconti Ruggine e ossa di Craig Davidson, il film è a tratti un po’ kitsch: Stéphanie che s’improvvisa “broker” di scommesse clandestine per gli incontri di “pugilato senza regole” cui partecipa Ali, come il fatto che all’improvviso lo troviamo ripulito e tirato a lucido che si allena in una regolare scuola di boxe dopo essersi dileguato nel nulla, è francamente poco credibile e stride un po’ con il racconto fin a quel momento misurato, pur nella sua asprezza.

Ironia della sorte, anche l’efficacia della fabula sembrerebbe essersi involontariamente adattata alle alterne vicende del reale. Resta intatto il riuscito sapore del film, quel misto di ruggine ed ossa che rievoca l’ umore ferrigno e dolciastro del sangue, che deve aver sentito l’orca dilaniando le carni di Stéphanie e che rimane in bocca al pubblico all’uscita dalla sala: il sapore agro e dolce della vita.



                                                                                         
Un sapore di ruggine e ossa
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