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Intervista a Nile Rodgers

di Michele Manzotti
  Nile Rodgers
Data di pubblicazione su web 10/09/2012  

Quando parla è un fiume in piena e quando non parla prende la chitarra in mano e accenna i brani che lo hanno fatto diventare famoso. Nile Rodgers infatti è considerato uno dei padri nobili della disco music anni ’70. La sua firma di autore e produttore è sugli album di Diana Ross, Sister Sledge ma anche di artisti bianchi come David Bowie. Soprattutto è stato il fondatore di un gruppo, gli Chic, che ha rivoluzionato la musica da ballo pescando dalla tradizione funky e rhythm’n’blues. Al Book festival di Edimburgo ha presentato la sua biografia Le Freak (edizione inglese Sphere/Little Brown) insieme a un autore di eccezione come Irvine Welsh.

Lei aveva un gruppo di rhythm’n’blues, come le è venuto in mente di fare qualcosa di diverso?

«Durante una data che la mia Big Apple Band fece a Londra. Andai a vedere un concerto dei Roxy Music e rimasi colpito. Il loro leader Brian Ferry, era elegantissimo e tutto il gruppo faceva belle canzoni con il giusto fascino, con glamour. Da allora mi chiesi se la mia formazione poteva essere l’equivalente di questa tendenza con musicisti neri».

Perché la scelta di un nome francese?

«Negli anni ’50 un sacco di musicisti americani vennero in Europa, specialmente in Francia, per lavorare. L'idea della produzione fu quella di caratterizzarci come gli eredi di coloro che erano andati sulle rive della Senna. Dovevamo fare gli americani francesizzati».

Come nasce un successo come Le Freak?

«Per puro caso. Grace Jones, che ci aveva ascoltato, mi aveva invitato alla festa di capodanno Studio 54 di New York. 'Dì che sei mio amico all'entrata degli artisti'. Allora mi vesto elegante e  insieme al bassista Bernard Edwards bussiamo alla porta:con il mio miglior sorriso dico che eravamo grandissimi amici della Jones. L'omone della sicurezza mi dà un'occhiata e mi manda a quel paese. Busso un'altra volta e il risultato non cambia. Due giorni dopo improvviso sulla chitarra e sopra due accordi inizio a canticchiare "Ohh, vai a quel paese Studio 54". Quel "Awww, f**k off!" iniziale divenne l'ispirazione per "Freak out!", il primo verso del brano».

Di solito non è facile ripetersi dopo un brano come quello…

«Noi avevamo scritto Good Times. La casa discografica Atlantic, con cui eravamo sotto contratto, decise di puntare su un altro singolo, My Sharona degli Knack. Questo disco vendette molto bene, ma Good Times fu portato in trionfo dal pubblico. E mentre My Sharona restò un fenomeno fine a se stesso nonostante il successo, il nostro brano divenne addirittura fonte di ispirazione per altri artisti che non facevano disco music».

Ad esempio?

«Il caso più eclatante è stato quello dei Queen. Il loro Another One Bist The Dust era molto simile a Good Times nella parte iniziale di basso. Tra l'altro quando ci esibivamo dal vivo il pubblico spesso si divertiva a canticchiare il pezzo dei Queen. Ma era logico, quello era il pezzo del gruppo che ha avuto il maggior successo di vendite. Magari sono più note Bohemian Rhapsody o We will rock you, ma non hanno venduto come quello. E non è l'unico caso tra i gruppi famosi. I Rolling Stones ad esempio. Non sto a elencare i loro brani che tutti conoscono. Ma quando si sono messi a mettere elementi di disco music nella loro produzione hanno venduto molto di più. Tutto, posso dirlo tranquillamente, grazie a noi che avevamo lanciato una tendenza».

 

Lei ha lavorato con tantissimi musicisti. C’è qualcuno con il quale vorrebbe collaborare, oppure le è dispiaciuto non farlo con qualcuno?

 

«Uno di cui ero diventato amico, Miles Davis. Verso i suoi ultimi anni lo incontravo ogni sera e mi diceva: “Perché non scrivi per me una canzone come Good Times?”. Come avrei potuto? gli rispondevo. Con i suoi album aveva cambiato la storia del jazz e io stesso ero stato influenzato da lui. Ma continuava a ripetermi la richiesta. Forse era tentato di fare un bel disco pop. Perché il pop, creato a grandi livelli, è autentica buona musica».


 

 

 

 

 

 

 

 

 


 



Foto di Roy Cox


 
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