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Sympathy for the Devil

di Luigi Nepi
  Pietà
Data di pubblicazione su web 06/09/2012  

 

Il suicidio di un disabile, una masturbazione, un rapporto sessuale, atti di sadismo, due orrende mutilazioni, un nuovo suicidio, la deglutizione di uno scarafaggio ed anche uno stupro incestuoso è ciò che si vede nei primi 15 minuti di Pieta di Kim Ki Duk, il tutto mostrato con una tale delicata naturalezza da risultare alieno a qualsiasi volontà provocatoria, liquidando così quel cinema che della provocazione fa la sua unica programmatica finalità (si veda a questo proposito Paradies: Glaube di Seidl). Torna al Lido il regista coreano più conosciuto al di fuori dei confini nazionali e lo fa con un film che si inserisce perfettamente nel personale percorso di redenzione, che lo stesso Kim Ki Duk ha messo in atto dopo l’incidente avvenuto sul set di Dream (2008), in cui l’attrice protagonista ha rischiato il soffocamento girando una scena in cui tentava il suicidio impiccandosi. Questo grave episodio ha segnato profondamente il regista, che si è sentito ed è stato additato come il vero responsabile dell’accaduto, a ciò sono seguiti anni di assoluta crisi e isolamento, nei quali ha scarnificato se stesso e il suo cinema come ci ha mostrato nello straziante Arirang (2011), che ne segna la rinascita umana e artistica. Una rinascita che, ovviamente, non può essere immediata, ma che necessita, come una Via Crucis, di stazioni successive che, progressivamente, portino a superare questo senso di colpa privato e collettivo anche attraverso la compassione verso l’uomo prima che verso l’artista, un cammino che trova proprio nella dottrina cristiana la sua fonte di ispirazione, visto che subito dopo Arirang Kim Ki Duk ha girato Amen (2011) e quindi Pieta.

 


 

Lee Kang-Do è un ragazzo di trent’anni che lavora per una società di strozzinaggio travestita da regolare finanziaria, recuperando i crediti dei debitori, con sistemi che ne evidenziano l‘assoluta aridità emotiva (rende storpi i debitori in modo che la finanziaria possa riscuotere il premio assicurativo che loro hanno stipulato), creando così dietro di sé una catena di odio assoluto. Un giorno una signora si presenta alla sua porta dicendo di essere sua madre ed è disposta a subire ogni tipo di umiliazione pur di dimostrarlo, quando tra i due inizia a stabilirsi un rapporto filiale la donna sparisce improvvisamente, costringendo il protagonista a ripercorrere a ritroso quella catena d’odio da lui stesso generata.

 


 

 Kim Ki Duk torna a dare corpo al suo cinema, un corpo soprattutto narrativo (lo ha definito “un film familiare e riconoscibile, per le masse”) che passa attraverso il tema classico della vendetta e del suo scontro con l’imprevedibile compassione verso l’oggetto della vendetta stessa e del suo inevitabile svilimento. Sympathy for the Devil (occhio ai “falsi amici”: sympathy significa proprio compassione, pietà) cantavano nel ’68 i Rolling Stones e “demonio” è l’appellativo con cui tutte le vittime appellano il protagonista che sembra godere del suo sadismo, chiuso in una totale anaffettività verso il mondo che lo circonda dove il denaro “è il principio e la fine di tutte le cose”. L’idea del denaro come male assoluto non è certo originale, ma Kim Ki Duk la elabora in un modo estremamente personale tanto da aprirne il respiro retorico in molteplici stratificazioni di lettura possibili: la società, la finanza, il cinema, la crisi… La macchina da presa gira tra gli squallidi meandri di Cheonggyecheon, il quartiere di Seul protagonista del boom economico ai tempi della nascita dell’industria informatica coreana e adesso ridotto ad una specie di favela all’interno della città, pieno di piccole capanne metalliche convertite in minuscole officine artigianali di tornitori meccanici ed inevitabilmente destinato ad essere raso al suolo per essere sostituito dagli immancabili grattacieli. Evidentemente anche in una delle economie più avanzate e in continuo sviluppo, la crisi schiaccia, storpia ed uccide letteralmente una classe sociale il cui lavoro è annientato dall’offerta di sempre minori compensi e in cui tutti sono sostituibili (compreso lo stesso protagonista).

 

 

Pieta è un ottimo esempio di come una storia complessa e molto articolata non debba necessariamente asservire le immagini alle sue esigenze, il cinema prende il sopravvento sul racconto, Kim Ki Duk non si dilunga in spiegazioni, gli attori si muovono in un contesto in cui i piani e i campi si allargano e si stringono, su paesaggi, panorami, strade, vicoli, officine, figure, primi piani, dettagli sempre necessari e mai dovuti, aprendosi a suggestioni folgoranti, come l’edificio diroccato da dove Kang getta le sue vittime, che, nel finale, diventa, magicamente, uguale a quello che Edmund sale per suicidarsi in Germania anno zero. In questo contesto i corpi vengono colpiti, storpiati e deformati, non solo dalle macchine e dalla crudeltà di Kang, ma anche dai sentimenti come testimoniano le profonde metamorfosi subite dai volti e dalle posture e dai vestiti  dei due protagonisti (Lee Jung-Jin e Cho Min-Soo, entrambi estremamente efficaci). Kim Ki Duk ci mostra i corpi di questa crisi sociale e morale, sempre più straziati dal dolore ed anche dalla pietà, quella stessa pietà che il regista prova a chiedere anche per se stesso, come conferma il bellissimo Miserere di Allegri che accompagna l’autoinflitta scarnificazione che chiude il film.




Pietà
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La locandina



 
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