La nave dolce è la Vlora, il vecchio mercantile che l8 agosto del 1991 trasportò clandestinamente un carico di circa ventimila persone dal porto di Durazzo a quello di Bari. Dopo un viaggio ai limiti della sopportazione umana, linsolito “carico” venne accolto nel disordine totale da una città incredula, generosa e certo impreparata ad affrontare un evento simile.
È linizio di un breve quanto terribile soggiorno per i passeggeri della nave e insieme lavvio di una serie interminabile di sbarchi di clandestini in Italia, provenienti dallAlbania allora oppressa dalla dittatura comunista. Il titolo allude al fatto che il giorno precedente la nave, di ritorno da Cuba, era approdata a Durazzo con diecimila tonnellate di zucchero in stiva.
Daniele Vicari sceglie di raccontare lepisodio più emblematico, il primo, di un aspetto della vita politica e sociale del nostro Paese di difficile gestione, quale quello dellimmigrazione clandestina via mare, segnatamente dallAlbania. Il regista, recentemente premiato per Diaz alla Berlinale 2012, mutua da quel film larticolazione “corale” della narrazione, sviluppata in più videointerviste: inquadrature fisse, per lo più in figura intera, lobiettivo puntato sui protagonisti reali di quel capitolo di cronaca, in piedi contro lo sfondo accecante di una camera bianca.
A queste immagini si alternano numerose riprese documentarie, generosamente fornite dalla Cineteca nazionale albanese. Tra gli interlocutori della macchina da presa figurano il comandante della nave, chi fu impegnato nellaccoglienza, chi riuscì a scampare al rimpatrio e chi invece dovette tornare a casa, salvo tornare in Italia in più favorevole occasione; è questo il caso del ballerino televisivo Kledi Kadiu, applaudita star alla proiezione del film, presentato Fuori concorso alla 69ª Mostra Internazionale dArte Cinematografica di Venezia.
Ne emerge un documentario a trecentosessanta gradi, che alla cronaca puntuale dei fatti affianca lattenzione allemozionante vissuto umano dei reali “attori” di quelle vicende, tra passeggeri della Vlora e italiani impegnati nellaccoglienza. Il regista attraverso il montaggio alternato delle diverse e incisive sequenze, prende apertamente posizione nei confronti di quanto mostrato, deprecando la mala gestione degli eventi da parte del Governo italiano, nonché la scelta del rimpatrio della maggior parte dei clandestini.
Sebbene Diaz e La nave dolce siano due progetti sviluppati dallautore parallelamente e nonostante il forte impatto visivo del primo, in questo film il regista sembra aver trovato uno stile espressivo forse meno anticonvenzionale, ma certo più coerente e perciò più riuscito. Laddove infatti Diaz era la finzione di un documentario ricostruito, qui ogni immagine è in sé un documento, evitando così la crisi didentità dellopera precedente, indecisa tra ricostruzione documentaristica e fiction difettosa. Un documentario dunque, che come tale non è fatto per piacere ma per informare; eppure nel suo genere riesce piacevole, per il clima spensierato creato dai racconti stessi degli ex-clandestini che, a distanza di ventuno anni dai fatti, nonostante la consapevolezza della drammaticità di quegli eventi, hanno il pregio dessere degli ottimi narratori (come notato dallo stesso regista). Latout del film sta proprio nel saper veicolare un messaggio difficile, con la facilità della conversazione amichevole e spensierata. Perché la medicina è amara e occorre cospargere gli orli del bicchiere col «dolce e biondo liquore del miele» per mandarla giù, diceva Lucrezio.
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