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Amo dunque sono

di Luigi Nepi
  To the Wonder
Data di pubblicazione su web 03/09/2012  

 

Tornare a parlare di Terrence Malick dopo appena un anno da The Tree of Life è di per sé già un evento. Per un regista che ci ha abituati a lustri se non proprio a decenni di attesa tra un film e l’altro, la presentazione di un nuovo film nel concorso principale della Mostra del Cinema di Venezia, dopo la vittoria a Cannes nel 2011, rappresenta un ulteriore evento nell’evento. Alla base di questa insolita urgenza creativa deve esserci necessariamente qualcosa di nuovo, qualcosa che ha spinto Malick, contrariamente alle sue abitudini consolidate, a tornare immediatamente sul set per mettersi ancora una volta in discussione (facendo discutere). Certo che The Tree of Life è sicuramente un film decisivo nella sua filmografia, un film molto coraggioso che contiene un’idea completamente nuova o meglio primigenia del cinema (immagine, movimento, parola, musica, ma anche racconto e montaggio), un’idea che, in fondo, è già presente nei suoi primi quattro film, ma che proprio a partire da The Tree of Life esce depurata da tutte quelle (sovra)strutture narrative classiche che spesso vincolano le inquadrature e che rischiano di ottundere il senso delle immagini. La consapevolezza di aver finalmente liberato il suo cinema da questi vincoli deve aver sicuramente influito in questa accelerazione produttiva che Malick ha impresso alla sua opera; la possibilità di un “altro” cinema, dove ci si possa rivolgere senza infingimenti alle più elevate categorie dello spirito, ha senz’altro contribuito a riportarlo subito dietro alla macchina da presa per soddisfare quella che ho definito essere un’urgenza creativa ma che, evidentemente, era anche comunicativa. Malick ha chiaramente fatto una scelta per niente facile, quasi estrema, che con To the Wonder si conferma essere difficilmente reversibile.

 

Se in The Tree of Life era l’improvviso avvento della pietà che permetteva l’evoluzione qualitativa delle forme di vita sulla terra, il meraviglioso non può che discendere dall’amore e dall’innamoramento, sia carnale che mistico, ed è questo che Malick ci mostra, attraverso le storie di Neil (Ben Affleck), Marina (Olga Kurylenko), Jane (Rachel McAdams) e Padre Quintana (Javier Bardem), che partono e si chiudono sulla meraviglia di Mont Saint-Michel. Neil è un geologo in vacanza a Parigi dove incontra si innamora di Marina, lui porta lei e sua figlia Tatiana nella sua casa in Oklahoma, ma presto l’innamoramento finisce e le due tornano in Francia, mentre Neil ritrova Jane, suo vecchio amore, ed inizia una relazione con lei. Intanto il parroco del posto vive la sua crisi verso la fede non riuscendo più a trovare il Cristo (ovvero l’amore) nelle esigenze dei suoi parrocchiani ed inizia così un suo personale pellegrinaggio tra gli ultimi (malati, drogati, carcerati, forestieri ovvero quelli indicati nel Vangelo di Matteo, 25, 31-46). Marina torna da Neil (ma senza più Tatiana che sceglie di andare dal padre) e Neil lascia Jane per sposarla, ma tutto finirà, per cominciare (forse) di nuovo a Parigi e a Mont Saint-Michel.

 

Malick non rinuncia al racconto ma, come dicevo, libera le sue immagini dall’obbligo di raccontare. Parafrasando Deleuze sostituisce all’immagine-azione l’immagine emozione, la sua priorità non è più narrativa ma emotiva ed evocativa. Ciò gli permette di sublimare le sue scelte formali e stilistiche per cui le immagini, fortemente frammentate e montate, causano un evidente straniamento rispetto al narrato, mentre la voce fuori campo sostituisce quasi per intero i dialoghi del film. Se l’origine dell’universo in The Tree of Life rimandava necessariamente ad immagini non figurative (forme, colori, luci, galassie), la meraviglia non ha bisogno di un’astrazione digitale, basta avvicinarsi ai fiori, amplificarne i dettagli, per ottenere quelle che possono essere definite delle vere e proprie macchie di Rorschach, per interagire con il meraviglioso presente in natura. Quella stessa natura che l’uomo può rendere meravigliosa come a Mont Saint-Michel o distruggere come in Oklahoma, sacrificando tutto sull’altare del petrolio, le cui bruttissime raffinerie impregnano l’aria e il suolo di sostanze inquinanti.

 

Di nuovo Malick torna a riflettere sulla dicotomia maschile-femminile e sul diverso approccio che questi due generi hanno nei confronti dell’amore, in questo forse nessun altro attore poteva rappresentare la fissità dell’uomo meglio di Ben Affleck, totalmente (e volutamente) rigido e inespressivo, costretto nella sua natura, mentre intorno le sue donne si muovono, danzano e volteggiano, toccate dalla grazia. Marina e Jane sono l’innamoramento e l’amore. La prima è una fiamma che divampa, esalta, ma finisce per bruciare velocemente se stessa e tutti quelli che tocca (compresa la figlia che fugge con il padre accontentandosi di vedere la madre su Skype), arriverà anche a tradire Neil con una sua orribile controfigura (non a caso l’amante occasionale ha gli stessi abiti del marito); la seconda, invece, è la brace che non si è mai sopita sotto la cenere, operosa, fortemente legata alla terra, con un triste passato (sua figlia è morta piccolissima), che vorrebbe fortemente ricostruire una famiglia, ma è incapace di travolgere Neil. Donne hitchcockianamente uguali e diverse, Marina e Jane contrappongono la loro complessità femminile all’immobile ottusità maschile arrivando casualmente a sfiorarsi, senza toccarsi, per un attimo che Malick rende giustamente quasi impercettibile.

 

Ma l’amore per l’altro non può essere solo fisico o carnale, per questo le vite di Neil, Marina e Jane si intrecciano con l’esperienza di Padre Quintana e con la sua ricerca del vero amore mistico, della vera fede che invoca attraverso le parole di S. Patrizio d’Irlanda Cristo sia con me. Questo lo porterà a trovare una forma vera e sincera di sublime proprio nella decadenza e nell’abbrutimento della favelas che si trova nella sua parrocchia.

 

Malick, in bilico tra Vertigo e Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, distilla il suo cinema offrendo allo spettatore qualcosa di davvero nuovo e inaspettato. Dopo aver visto To the Wonder possiamo scuotere la testa e rammaricarci del tempo perduto oppure accettare la sfida e iniziare a riflettere, come Malick, che “un altro cinema è possibile”. Non resta che decidere da che parte stare.

 

To the Wonder
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