Dopo linstant book e linstant movie arrivò linstant opera. Ma la realtà ha tempi più veloci del melodramma, e al terrificante sisma del 2009 a LAquila nel frattempo è seguito – in unaltra Italia neppure troppo lontana in linea daria – un secondo terremoto, non meno tragico. Nûr (la prima opera commissionata ad hoc, dopo quasi quarantanni di vita, dal Festival della Valle dItria) assume così un sapore metastorico, più che di lavoro legato a una drammaticissima attualità: e, in fondo, è questa la sorte più giusta per unopera che proprio sul diacronismo gioca le carte più ambiziose della sua drammaturgia, con i fantasmi di Celestino V e Jacques de Molay che vagano nellospedale da campo tra i terremotati abruzzesi.
Foto Laera
In unora e venti di musica che scompaginano le unità di luogo, tempo e azione pur rispettandole allapparenza (dalla tendopoli ospedaliera ci si trasferisce nellultimo quadro al limitrofo campo di Collemaggio; medici, infermieri e feriti del 2009 convivono, come si è detto, col papa «che fece per viltade il gran rifiuto» e con lultimo Maestro dellordine dei templari; si trascolora dalla notte alla luce, forse solo simbolica, del giorno dopo) Marco Taralli e il suo librettista Vincenzo De Vivo giocano la carta di un “verismo visionario”, occhieggiante forse al “realismo magico” di Bontempelli, che approda a esiti discontinui: da un lato perché i due piani stentano comunque a fondersi, dallaltro perché il compositore sembra più interessato al versante paraverista, mentre lautore del libretto inclina verso la visionarietà metastorica. Gli affondi realistici – le geremiadi dei feriti senzatetto, il brusco pragmatismo dun dottore che spersonalizza i ricoverati considerandoli solo dei numeri di letto – attengono anzi a un bozzettismo un po vieto che, certo senza averne lintenzione, potrebbe perfino suonare leggermente offensivo per la dignità con cui gli aquilani hanno affrontato la loro tragedia.
Il piano “privato” dellopera (il rapporto tra il giovane volontario magrebino e la donna che ha perso la vista nel terremoto) offre spunti di commozione epidermica, ma, almeno a tratti, genuina, che la scrittura tradizionale di Taralli asseconda con efficacia: ci muoviamo su una direttrice puccinista (mentre luso del pianoforte in orchestra porta una spruzzata gershwiniana) che alterna diatonismi a cromatismi, ma in cui traspare comunque lesigenza di convogliarsi verso una polarità tonale definita. Limpressione è soprattutto quella dun pronipotino della Giovane Scuola: il gusto per una prosodia dove il periodare musicale non termina dove finisce quello librettistico, e viceversa, discende dal Cilea dellAdriana Lecouvreur, e tra i tanti omaggi che la partitura fa alla temperie musicale di quegli anni il più palese (nellaria di Jacques de Molay e nel finale) è al Franco Alfano di Risurrezione. La direzione di Jordi Bernácer evidenzia con chiarezza queste caratteristiche.
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I temi di fondo dellopera di Alfano – speranza, perdono, rigenerazione – sono daltronde gli stessi di Nûr (“luce”, in arabo): ma qui entra in gioco laltro snodo della trama, quello tra i fantasmi della Storia. Scatta così una vera e propria “altra opera”, che la partitura stenta a fondere e la regia di Roberto Recchia, molto efficace nella descrizione dellospedale da campo, non riesce a impaginare con naturalezza. Se Celestino V – che compare sotto forma di frate, come Carlo V nel Don Carlo – è per LAquila è una presenza storicamente familiare, il fantasma di de Molay sembra una scelta drammaturgica più forzata. Dalla presenza dellultimo dei templari inteso come personaggio-chiave (è lui, in primo luogo, il portatore del messaggio di perdono) scaturisce una sorta di percorso iniziatico, con evidente retrogusto massonico: ma Taralli non è Mozart, De Vivo non è Schikaneder, Nûr non è Die Zauberflöte; e limpressione – magari infondata – è quella di un private joke tra liberi muratori, anziché di unarticolazione necessaria della vicenda.
Se lopera ripropone luoghi canonici del melodramma aggiornati alloggi (la classica agnizione avviene in virtù dun tatuaggio, anziché dun medaglione o un ritratto) anche il cast dà lidea di bei tempi andati sotto forma di riciclo: ventidue anni dopo la loro Traviata scaligera, Tiziana Fabbricini e Paolo Coni – che nel frattempo hanno conosciuto naufragi e riscatti, tramonti di fortuna e autorevoli rentrée – tornano insieme lasciandosi alle spalle il belcanto, ma pur sempre sotto il segno duna vocalità tradizionale (una scrittura veristeggiante in bilico tra soprano e mezzosoprano per lei, un declamato fondamentalmente lirico per lui). La Fabbricini si conferma teatrante di razza, dove la voce è solo uno dei tasselli del quadro; Coni mostra, anche lontano da Verdi, quella nobiltà di linea e quellopacità nel registro acuto che sancirono la sua fortuna iniziale, ma pure il suo troppo rapido declino.
Per quanto riguarda i tenori, alla morbidezza lirica del giovane volontario nordafricano si oppone il canto più spinto – ma senza tentazioni autenticamente eroiche – del cavaliere templare. I due personaggi non sincontrano mai, sancendo la sostanziale incomunicabilità tra le due parti, e le due anime, dellopera: e anche i rispettivi interpreti sono antitetici, ad ascoltare la vocalità delicata ma non fragile di David Ferri Durà e lemissione assai più dura e scompaginata di David Sotgiu.
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