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La memoria rubata secondo
Vandekeybus


di Fabiana Campanella
  booty Looting
Data di pubblicazione su web 09/07/2012  
                                 

booty Looting, la nuova produzione di Wim Vandekeybus e della sua compagnia Ultima Vez, presentata in giugno in prima assoluta al Festival di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, è un lavoro sulla memoria, sulla fotografia, sul passato recente dell’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Per parlare di tutto questo, il regista e coreografo fiammingo compone una rapsodica orazione funebre di tre figli per una amata/odiata madre, di cui vediamo vita vizi e violenze attraverso sprazzi di flashback, inscenati e fotografati in diretta.

 

Se il flusso temporale della storia raccontata è continuamente rimescolato dal fotografo che “uccide il presente e congela il passato”, il percorso concettuale si delinea progressivamente, sin dal titolo: “booty Looting” significa letteralmente “saccheggio del bottino”, ovvero rubare ciò che è stato già rubato. Il rimando esplicito a Proust, che accusò la memoria visiva di cancellare i ricordi, è solo lo spunto per mostrare, in due ore di spettacolo, come sia possibile rimontare i ricordi tramandati sulle foto, che catturano la realtà privandola di ogni contorno, odore, sapore e senso. Spesso le immagini trasmettono una memoria selettiva e consolatoria, perché “salvano” di una vacanza disastrosa solo il panorama mozzafiato, o di una storia finita male solo gli scatti dei momenti felici: Vandekeybus porta alle estreme conseguenze il gioco della distorsione, aggiungendo quella sonora della chitarra elettrica di Elko Blijweert, 8° personaggio in scena oltre al fotografo, ai due attori e ai quattro performers.

 

Con i gesti convulsi e aggressivi di una danza ferina che contraddistingue da sempre lo stile coreografico dell’ex danzatore nudo di Jan Fabre, i personaggi reinterpretano i fatti, li travisano, sbalzano il punto di vista, in un vorticoso via vai temporale che sopprime ogni ipotesi di realtà. L’ambientazione post moderna con attrezzerie a vista, cavi e mixer in scena, innesta il senso dell’ironia e dell’eccesso in questa travolgente farsa dark.

 

Fuori dai frammenti narrativi, il tono è allegro, condito da intermezzi country di prodezze ballerine e dalla cornice recitata da un imbonitore che troppo spesso interviene, introduce, spiega, si fa protagonista di alcuni frammenti. È l’attore Jerry Killick, icona dell’arte di Vandekeybus, già in squadra con gli inglesi Forced entertainement: nel 2011 era l’allucinato protagonista di Monkey Sandwich, sempre per la regia di Vandekeybus, film di catastrofi esistenziali ed ecologiche presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. È lui che sposta i corpi morti della prima scena, con indosso una vestaglia bianca, mentre un organo sottolinea il dramma di un funerale. Tutto questo, spiegherà con appeal da presentatore televisivo, per mostrare uno dei tanti modi di rappresentare il dolore. Un altro esempio, più eccessivo, è la “extreme version” di I Like America and America Likes Me, performance di Joseph Beuys del 1974: 3 giorni in una stanza di una galleria di New York con un coyote, in un’interazione sciamanica sotto lo sguardo del pubblico. Con una scopa al posto del bastone, per qualche minuto e non per 3 giorni, con danzatori scatenati a morderlo e percuoterlo invece del coyote, Jerry Killick si chiude nella coperta di feltro e si lascia massacrare al cospetto del pubblico. “Great!”, urla alla fine macilento e barcollante. L’effetto del dolore in diretta a partire dal ricordo di una performance ben più pacifica scuote e diverte il pubblico, e accelera il ritmo dello show

 

Una diva schiva e isterica compare in scena come prima testimone del dolore. È lei, la madre, i cui figli giacciono come corpi senza forma. È Birgit Walter, attrice e maschera perfetta per il regista belga, dal volto plastico e dall’espressività tragica. Birgit è l’ultima diva, è la mamma sanguinaria, è Medea. Tutte le scene, dalla sua comparsa in poi, saranno un triplo salto mortale: l’episodio rievocato a voce, quello ricostruito in scena dagli attori con piccoli fondali mobili, quello catturato dal fotografo Danny Willems e immediatamente riprodotto sul grande schermo con impressionanti istantanee sempre più splatter. Ad ogni passaggio si perde un pezzo di verità, se ve n’è una. Se la scena si svolge in un garage o in una spiaggia esotica, se la madre, rapidamente e opportunamente truccata, appare tumefatta e sanguinante, e se il figlio, che racconta mesto, viene immortalato con sguardo truce e violento, tutto il senso del racconto cambia. «Non mi ha mai fatto il mio piatto preferito», «per noi la vita di questa donna fu un disastro»: dicono i figli tornando al microfono mentre alle loro spalle giganteggiano le foto della madre martoriata. «Quando è incinta non si piace e in segreto vorrebbe uccidere i suoi bambini»: ed ecco Medea che uccide i suoi figli schiacciandoli sulla macchina fotocopiatrice ai bordi della scena, con tanto di matrimonio di Giasone. Dunque l’orazione funebre era per i figli. Forse.

 

L’effetto è comico, mentre la chitarra elettrica travolge di rabbia gli eccezionali danzatori che si lanciano fuori controllo in un ballo quasi autolesionista, liberatorio e animalesco. «È un lungo progetto, iniziato 25 anni fa, quando ho iniziato a fare spettacoli, con il mio primo lavoro what the body does not remember  – che rimetteremo in scena a breve: un’indagine sui limiti del corpo nella relazione con gli istinti», spiega l’artista quasi cinquantenne, che unisce alla sua ricerca primigenia l’attrazione per la tragedia greca, come già nell’Oedipus/bęt noir, applauditissimo al Festival Fabbrica Europa di Firenze lo scorso maggio. In booty Looting c’è tutta la forza straordinaria dei performers di Ultima Vez, ma i molti interventi parlati frammentano il ritmo e allungano i tempi di un lavoro complesso e di molteplici letture. Il focus sui linguaggi – la musica, la fotografia, la danza – basterebbe da sé a reggere l’impalcatura. La storia di una madre/Medea e la riflessione sulla memoria sono la struttura narrativa e concettuale. La formula ammiccante del presentatore alleggerisce il tono e sposta l’attenzione, ma è un ulteriore passaggio stilistico che toglie densità a un lavoro che può sembrare confuso e manierista. Ciò che resta è un uomo nudo che prende a testate un palloncino, mentre il chitarrista con la maglietta dei Pink Floyd intona accordi di celebri ballate rock: perché la memoria, il più delle volte, genera ossessioni.




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