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Solaris o dell’epistemologia operistica

di Paolo Patrizi
  Solaris
Data di pubblicazione su web 24/07/2012  

Finché è rimasta in salute, l’opera è stata un genere narrativo, popolare, pragmatico: il gusto per il non-racconto (o quanto meno una narrazione minimalista e frantumata), per i tempi “interiori” dei personaggi in luogo dell’evolversi diacronico di una vicenda oggettiva, per una drammaturgia costruita sui concetti anziché sull’azione ha coinciso con un teatro musicale che ha messo in crisi i basamenti – estetici e strutturali – di quattro secoli di melodramma. Tutto si evolve: ma, entrati nel secondo decennio del terzo millennio, si comincia a sentire il bisogno di un teatro d’opera che pone interrogativi metafisici scompaginando l’unità di tempo e azione, conservando però gusto del racconto e senso della forma. La nuova opera di Detlev Glanert, Solaris, in prima mondiale a Bregenz, risponde a quest’esigenza: i temi di fondo – lo scarto tra sviluppo scientifico e maturazione etica, il prendere atto che nella gerarchia dell’universo l’uomo non occupa il gradino più alto, l’ignoto come superiore ordine metafisico anche a prescindere dall’esistenza di Dio – difficilmente possono dirsi operistici; e tuttavia la ricchezza dell’intelaiatura orchestrale, la capacità evocativa della scrittura corale, il senso di una drammaturgia canora chiamata a sagomare i personaggi e farli entrare in dialettica tra loro appartengono al teatro d’opera più autentico.

Glanert, d’altronde, è un compositore contemporaneo “antico” quanto a sensibilità teatrale e sapienza sinfonico-vocale: essersi formato con Henze (l’ultimo grandissimo operista vivente, se è lecito fare in sede critica un’affermazione così categorica), tenere dei ritmi creativi non frenetici ma comunque prolifici (tredici opere in ventisei anni), avere alle spalle un’autorevole militanza come direttore artistico (pure in Italia, al Cantiere di Montepulciano) sono segnali eloquenti di un’autentica inclinazione verso il teatro musicale. La scelta dei suoi soggetti, anche quando affronta l’opera da camera, tende a eludere tentazioni minimaliste e, sotto questo profilo, Solaris ha il sapore d’una vera e propria sfida: come tradurre in musica il romanzo più interlocutorio, psicanalitico e morale mai prodotto dalla letteratura di fantascienza?

Se Stanislaw Lem si proclamò insoddisfatto di come Andrej Tarkovsky aveva adattato il libro per il grande schermo, forse oggi sarebbe stato contento del modo in cui Glanert e il suo librettista Reinhard Palm hanno trasformato Solaris in due ore e un quarto (mezzora meno del film) di buon teatro e ottima musica. La natura di dramma gnoseologico – con quello iato tra ansia di conoscenza e impotenza conoscitiva che tanto premeva a Tarkovsky – qui resta un po’ sottopelle, ma la necessità di creare una drammaturgia da palcoscenico ha portato a cambiamenti molto funzionali: i cosiddetti “ospiti” – i fantasmi della memoria degli astronauti, che l’oceano del pianeta Solaris materializza – assumono tutti un peso decisivo, e anche le figure appena abbozzate o addirittura assenti nel romanzo vivificano l’intreccio. Se Harey (la fidanzata del protagonista suicidatasi molti anni prima, riemersa sotto forma di clone inconsapevole ma assetato d’amore) è un personaggio memorabile già nel libro e nel film, pure la mamma castrante e feticizzata, il bambino nanerottolo e deforme, la negra giunonica ed eroticamente sottomessa («Negerin», con scelta lessicale volutamente politically uncorrect) hanno qui una plasticità insieme icastica e visionaria.

Struggimenti lirici e girotondi grotteschi (siamo lontani dalla rarefatta severità che suggerì a Tarkovsky, per la colonna sonora, l’uso d’un corale di Bach) si alternano nell’opera come sotto lo sguardo, empatico e distante al contempo, di chi osserva un pianeta dalla navicella spaziale. L’idea musicalmente più forte è quella di dar voce anche a Solaris, o meglio al suo oceano di plasma: un coro misto – lo straordinario Prager Philharmonischer Chor – di mobilissima e quasi ligetiana matericità. I Wiener Symphoniker e la bacchetta duttile e vibratile di Markus Stenz trasmettono invece la straordinaria ricchezza timbrica della partitura (clarinetti e clarinetto basso influiscono molto nell’impasto complessivo, arpe e celesta ci portano serenamente per mano nel cyberspazio), ma anche il trattamento vocale è notevole, oltre che servito alla perfezione dal cast.

Il linguaggio è solidamente tradizionale: il protagonista intona un «Wahn! Wahn!» che suona come indiretto, ma inequivocabile, richiamo ai Meistersinger e certe frecciate che Lem indirizzava alla “solaristica” in quanto scienza immobile potrebbero forse, nell’ottica di Glanert, muoversi al dogmatismo di Darmstadt e a ogni altra rigidezza ideologica in campo musicale. Sta di fatto che il baritono (lo scienziato-psicologo Kelvin, il più umanista tra gli astronauti) si muove all’interno di una “prosa musicale”, con qualche scantonamento nell’arioso, che ieri sarebbe stata pensata ad hoc per Fischer-Dieskau e oggi viene restituita molto bene da Dietrich Henschel; che ritroviamo l’archetipo novecentesco del tenore caratterista-protagonista (Snaut, l’astronauta con un complesso edipico devastante) dal registro acuto sollecitato in senso grottesco, ottimamente incarnato da Martin Koch; che per il personaggio più negativo (il fisico Sartorius, epitome dello scienziato arido e cinico) si ricorre a un tradizionale declamato bassobaritonale, reso da Martin Winkler con la duttilità del grande “attore vocale”.


Le presenze femminili – di struttura neutrinica, ma capaci di soffrire e far soffrire – trascolorano da un linguaggio leggero-soubrettistico (il Nano, ovvero il figlioletto focomelico che Sartorius aveva fatto sopprimere, affidato all’ottima cantante da operetta Mirka Wagner) a una classica scrittura mezzosopranile (la mamma oggetto di desiderio, ben resa anche scenicamente dall’austera e conturbante maturità di Christiane Oertel) o contraltile (la negra straripante e felliniana, oversize pure vocalmente, di Bonita Hyman). E se Offenbach tradusse l’artificialità della bambola meccanica Olympia con la vocalità innaturale d’un pirotecnico soprano di coloratura, Glanert sceglie per Harey, creatura dell’inconscio più vera del vero, il naturalissimo registro di puro soprano lirico: un trascolorare da frasi lunghe e legate a un canto spezzettato, talvolta monosillabico, che mostra un personaggio composto alternamente di vuoti e di pieni, una coscienza vergine che poco a poco acquista consapevolezza ontologica. Diafana e intensa, Marie Arnet ne è l’interprete ideale.

La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier alterna buone trovate (il Nano come un coniglietto teppista e braccato) a soluzioni più banali (l’immagine conclusiva del protagonista fluttuante nello spazio non va oltre l’omaggio alla scena della lievitazione nel film di Tarkovsky), all’interno di una cornice scenografica prevedibilmente algida. Un testo così significativo meritava qualcosa di più, ma si esce di teatro consapevoli d’aver assistito a un’opera importante: il colpo migliore messo a segno dal Festival di Bregenz, da quando ai titoli di repertorio in riva al lago vengono affiancate delle novità assolute.




Solaris



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