Finché
è rimasta in salute, lopera è stata un genere narrativo, popolare, pragmatico:
il gusto per il non-racconto (o quanto meno una narrazione minimalista e frantumata),
per i tempi “interiori” dei personaggi in luogo dellevolversi diacronico di
una vicenda oggettiva, per una drammaturgia costruita sui concetti anziché
sullazione ha coinciso con un teatro musicale che ha messo in crisi i
basamenti – estetici e strutturali – di quattro secoli di melodramma. Tutto si
evolve: ma, entrati nel secondo decennio del terzo millennio, si comincia a
sentire il bisogno di un teatro dopera che pone interrogativi metafisici
scompaginando lunità di tempo e azione, conservando però gusto del racconto e
senso della forma. La nuova opera di Detlev
Glanert, Solaris, in prima mondiale a Bregenz, risponde a questesigenza: i temi
di fondo – lo scarto tra sviluppo scientifico e maturazione etica, il prendere
atto che nella gerarchia delluniverso luomo non occupa il gradino più alto, lignoto
come superiore ordine metafisico anche a prescindere dallesistenza di Dio – difficilmente
possono dirsi operistici; e tuttavia la ricchezza dellintelaiatura orchestrale,
la capacità evocativa della scrittura corale, il senso di una drammaturgia
canora chiamata a sagomare i personaggi e farli entrare in dialettica tra loro appartengono
al teatro dopera più autentico.
Glanert,
daltronde, è un compositore contemporaneo “antico” quanto a sensibilità
teatrale e sapienza sinfonico-vocale: essersi formato con Henze (lultimo grandissimo operista vivente, se è lecito fare in
sede critica unaffermazione così categorica), tenere dei ritmi creativi non
frenetici ma comunque prolifici (tredici opere in ventisei anni), avere alle
spalle unautorevole militanza come direttore artistico (pure in Italia, al
Cantiere di Montepulciano) sono segnali eloquenti di unautentica inclinazione
verso il teatro musicale. La scelta dei suoi soggetti, anche quando affronta lopera
da camera, tende a eludere tentazioni minimaliste e, sotto questo profilo, Solaris ha il sapore duna vera e
propria sfida: come tradurre in musica il romanzo più interlocutorio,
psicanalitico e morale mai prodotto dalla letteratura di fantascienza?
Se
Stanislaw Lem si proclamò
insoddisfatto di come Andrej Tarkovsky
aveva adattato il libro per il grande schermo, forse oggi sarebbe stato
contento del modo in cui Glanert e il suo librettista Reinhard Palm hanno trasformato Solaris
in due ore e un quarto (mezzora meno del film) di buon teatro e ottima
musica. La natura di dramma gnoseologico – con quello iato tra ansia di
conoscenza e impotenza conoscitiva che tanto premeva a Tarkovsky – qui resta un
po sottopelle, ma la necessità di creare una drammaturgia da palcoscenico ha
portato a cambiamenti molto funzionali: i cosiddetti “ospiti” – i fantasmi
della memoria degli astronauti, che loceano del pianeta Solaris materializza –
assumono tutti un peso decisivo, e anche le figure appena abbozzate o
addirittura assenti nel romanzo vivificano lintreccio. Se Harey (la fidanzata
del protagonista suicidatasi molti anni prima, riemersa sotto forma di clone
inconsapevole ma assetato damore) è un personaggio memorabile già nel libro e
nel film, pure la mamma castrante e feticizzata, il bambino nanerottolo e
deforme, la negra giunonica ed eroticamente sottomessa («Negerin», con scelta
lessicale volutamente politically uncorrect) hanno qui una plasticità
insieme icastica e visionaria.
Struggimenti
lirici e girotondi grotteschi (siamo lontani dalla rarefatta severità che
suggerì a Tarkovsky, per la colonna sonora, luso dun corale di Bach) si alternano nellopera come
sotto lo sguardo, empatico e distante al contempo, di chi osserva un pianeta
dalla navicella spaziale. Lidea musicalmente più forte è quella di dar voce
anche a Solaris, o meglio al suo oceano di plasma: un coro misto – lo
straordinario Prager Philharmonischer
Chor – di mobilissima e quasi ligetiana matericità. I Wiener Symphoniker e la bacchetta duttile e vibratile di Markus Stenz trasmettono invece la
straordinaria ricchezza timbrica della partitura (clarinetti e clarinetto basso
influiscono molto nellimpasto complessivo, arpe e celesta ci portano
serenamente per mano nel cyberspazio), ma anche il trattamento vocale è
notevole, oltre che servito alla perfezione dal cast.
Il
linguaggio è solidamente tradizionale: il protagonista intona un «Wahn! Wahn!»
che suona come indiretto, ma inequivocabile, richiamo ai Meistersinger e certe frecciate che Lem indirizzava alla
“solaristica” in quanto scienza immobile potrebbero forse, nellottica di
Glanert, muoversi al dogmatismo di Darmstadt e a ogni altra rigidezza
ideologica in campo musicale. Sta di fatto che il baritono (lo scienziato-psicologo
Kelvin, il più umanista tra gli astronauti) si muove allinterno di una “prosa
musicale”, con qualche scantonamento nellarioso, che ieri sarebbe stata
pensata ad hoc per Fischer-Dieskau e oggi viene restituita
molto bene da Dietrich Henschel; che
ritroviamo larchetipo novecentesco del tenore caratterista-protagonista
(Snaut, lastronauta con un complesso edipico devastante) dal registro acuto
sollecitato in senso grottesco, ottimamente incarnato da Martin Koch; che per il
personaggio più negativo (il fisico Sartorius, epitome dello scienziato arido e
cinico) si ricorre a un tradizionale declamato bassobaritonale, reso da Martin Winkler con la duttilità del grande “attore vocale”.
Le
presenze femminili – di struttura neutrinica, ma capaci di soffrire e far soffrire
– trascolorano da un linguaggio leggero-soubrettistico (il Nano, ovvero il
figlioletto focomelico che Sartorius aveva fatto sopprimere, affidato
allottima cantante da operetta Mirka
Wagner) a una classica scrittura mezzosopranile (la mamma oggetto di
desiderio, ben resa anche scenicamente dallaustera e conturbante maturità di Christiane Oertel) o contraltile (la
negra straripante e felliniana, oversize
pure vocalmente, di Bonita Hyman). E
se Offenbach tradusse lartificialità della bambola meccanica Olympia con la
vocalità innaturale dun pirotecnico soprano di coloratura, Glanert sceglie per
Harey, creatura dellinconscio più vera del vero, il naturalissimo registro di
puro soprano lirico: un trascolorare da frasi lunghe e legate a un canto spezzettato,
talvolta monosillabico, che mostra un personaggio composto alternamente di
vuoti e di pieni, una coscienza vergine che poco a poco acquista consapevolezza
ontologica. Diafana e intensa, Marie
Arnet ne è linterprete ideale.
La
regia di Moshe Leiser e Patrice
Caurier alterna buone trovate (il Nano come un coniglietto teppista
e braccato) a soluzioni più banali (limmagine conclusiva del protagonista
fluttuante nello spazio non va oltre lomaggio alla scena della lievitazione
nel film di Tarkovsky), allinterno di una cornice scenografica prevedibilmente
algida. Un testo così significativo meritava qualcosa di più, ma si esce di
teatro consapevoli daver assistito a unopera importante: il colpo migliore
messo a segno dal Festival di Bregenz, da quando ai titoli di repertorio in
riva al lago vengono affiancate delle novità assolute.
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