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Amori e intrighi alla corte di Persia

di Giovanni Fornaro
  Artaserse
Data di pubblicazione su web 19/07/2012  

 

Sgombriamo subito il campo da equivoci: si tratta di un tentativo di golpe, né più, né meno. È questo il soggetto dell’opera seria inaugurale del Festival della Valle d’Itria 2012, Artaserse (1730), dramma per musica in tre atti, libretto di Pietro Metastasio, musica di Joahnn Adolf Hasse.

 

Opera italianissima, perché ai versi sommi del grande poeta romano si unisce la musica di un compositore tedesco nato, artisticamente, in Italia, allievo di Porpora e di Alessandro Scarlatti a Napoli, e che nel nostro paese ritornò periodicamente, per lavoro e diletto, nei lunghissimi intervalli di tempo in cui l’Elettore si spostava dalla corte di Dresda a quella di Varsavia. Ancora, italiana era sua moglie, la famosa cantante Faustina Bordoni. Matrimonio celebrato nello stesso fortunato anno di Artaserse.

 

Ad ogni modo, la partitura scritta da Hasse per l’allestimento al teatro veneziano di San Giovanni Grisostomo, durante il Carnevale del 1730, fu la seconda di oltre centosette versioni prodotte da ottanta musicisti (fra i quali Vinci, cui spetta, per pochi giorni, il primato, poi Gluck, Galuppi, Jommelli, Paisiello, Cimarosa e nuovamente lo stesso Johann Adolf, nel 1740 per la corte di Dresda e nel 1760 a Napoli) nel corso dei decenni successivi, a testimonianza dell’enorme successo che il testo metastasiano riscosse all’epoca.

 


Un momento dello spettacolo (Foto Laera)


Hasse qui opera secondo uno stile nuovo, “moderno”, in cui il “belcanto”, cioè una ardita e virtuosistica scrittura per le voci, segna un notevole iato con le “ingessature” dell’opera a cavallo fra Seicento e Settecento, mantenendo la struttura “chiusa” per arie e recitativi, con un solo duetto e il “tutti” in finale.

 

Dal punto di vista del profilo narrativo, Metastasio fa riferimento ad un fatto storicamente accertato: il complotto di palazzo che, nella Persia del V secolo a.c., portò all’assassinio del sovrano Serse e al tentativo di esautorare tutta la sua famiglia dalla successione, a cominciare dal figlio Artaserse. Pubblico e privato, nel libretto, si intrecciano, in quanto Mandane (figlia di Artabano, prefetto delle guardie reali e organizzatore del golpe) e quella del re amano rispettivamente Artaserse e Arbace (figlio del traditore).

 

Tutto il ductus narrativo conduce ad Arbace, il quale non intende tradire il proprio padre e assume su di sé l’accusa, alienandosi l’amicizia di Artaserse e l’amore di Mandane. Fra colpi di scena e patetismi, sarà la tenacia dolente di Arbace, la sua “resistenza passiva” per mantenere il rispetto verso il genitore, a sbloccare la situazione: Artabano dovrà svelare il proprio oscuro ordito se vorrà impedire che il figlio beva, inconsapevole, da una coppa avvelenata destinata ad Artaserse; e sarà questi a impedire un finale tragico e a riconciliare tutti, accordando al prefetto delle guardie l’esilio in luogo della morte.

 


 

A Martina Franca, il testo poetico ascoltato è quello conservato nel Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, edizione a cura di Mario Armellini. La versione veneziana del 1730 era la risultante di una ampia revisione di Giovanni Boldini e sembra che, sotto la prospettiva musicale, fosse la preferita dal poeta cesareo.

 

Il regista Gabriele Lavia, non nuovo ad allestimenti d’opera, ha operato tagli minimi ai recitativi, per cui lo spettacolo, pause comprese, si è articolato su circa quattro ore complessive.

 

Per quanto attiene allo spartito, quello autografo è andato perduto e sulle molteplici e difformi copie pervenuteci si è operata una scelta che il curatore della edizione utilizzata per questo allestimento, Marco Beghelli (con la consulenza di Raffaele Mellace), definisce, nel bel libro di sala del festival, «il più possibile “affidabile”».

 

In questa prospettiva, per una questione di equilibrio drammaturgico ma anche musicale, dopo la scena terza del primo atto è stata inserita un’aria (all’epoca annoverata fra quelle “di baule”, cioè buona per occasioni diverse, adattando il testo) non proveniente da Artaserse di Hasse ma dal quasi coevo (1733) Motezuma di Antonio Vivaldi (“S’impugni la spada”). L’aria estratta da Motezuma, «con buona attenzione alla pertinenza drammatica, stilistica e vocale», scrive Beghelli, in qualche modo restituisce al personaggio di Artabano una dignità sottrattagli illo tempore, probabilmente per non sottoporre a eccessive fatiche il non più vigoroso contraltista Nicolino Grimaldi. Una scelta forse criticabile – si sarebbe potuto considerare, per coerenza filologica, un testo musicale dello stesso compositore tedesco – ma sicuramente “funzionante” dal punto di vista della fruizione in scena.

 

L’allestimento ideato da Lavia attualizza la congiura in un Iran pre-rivoluzione khomeinista, con divise (costumi di Andrea Viotti) stile carabiniere alamarato per tutti i personaggi maschili e i figuranti, e abiti non connotati storicamente per i ruoli femminili (differenziati, questi ultimi, solo lievemente, per il colore): una mancata caratterizzazione che, in qualche momento, confonde il pubblico, sebbene abbia un senso nel mettere in evidenza la simmetrica opposizione fra bene e male, padre e figlio, sorella di Arbace (che lo vuole salvo) e sua amante (che ne chiede la condanna a morte).

 

Al centro della scena (curata da Alessandro Camera) e con chiari riferimenti alla disgregazione del potere imperiale, un enorme edificio che mostra i segni del tempo e della ruggine, scomponibile con movimenti esclusivamente automatizzati per rappresentare ora i giardini della reggia, ora la prigione ove viene rinchiuso Arbace, ora la sala del trono.

 

La già menzionata centralità del ruolo, drammaturgico e musicale, di Arbace si tradusse, per la “prima” veneziana, nella scelta del giovane Carlo Broschi detto il Farinelli, vera star dell’opera settecentesca, le cui vertiginose arie con “da capo” richiedono, in Artaserse, capacità artistiche e tecniche eccezionali. Come è noto, oggi ci è impossibile capire quale fosse la voce celestiale e androgina di Farinelli, ma la scelta all’uopo di Franco Fagioli, che da tre anni riscuote successi ed entusiasmi qui a Martina Franca, è sicuramente felice: il controtenore argentino sostiene bene l’impegno, nonostante i frequenti (e visibili) debiti di fiato che la parte richiede, e suscita in sala entusiasmi da stadio, con frequenti chiamate da parte del pubblico, in particolare nelle arie “Se al labbro mio non credi” (finale della scena quattordicesima del I atto), “Per questo dolce amplesso” (alla fine della scena undicesima del II atto) e la famosa “Parto, qual pastorello” (scena seconda dell’atto III).

 


Un momento dello spettacolo (Foto Laera)


Ma al Valle d’Itria il pubblico non ha lesinato consensi anche ad altri membri del cast vocale. Molto bravo l’altro controtenore, Antonio Giovannini nel ruolo di Megabise, generale persiano, bene intonato, sobrio e preciso negli attacchi e nel sostegno alla voce, così come eccezionale l’impegno del contralto Sonia Prina nel difficile ruolo en travesti di Artabano: i suoi bassi non erano meno espressivi e difficoltosi delle tonalità alte previste per Arbace e meritato è il successo riscosso con le melodie “S’impugni la spada” (scena quarta del I atto: è l’aria “di baule” di Vivaldi cui accennavo prima) e “Pallido il sole, torbido il cielo” che chiude il secondo atto. Anche Maria Grazia Schiavo, nel ruolo dell’innamorata ma vendicativa Mandane, dalla bella voce e dalle interessanti doti interpretative, ha mostrato il suo talento, in particolare nell’aria “Parti dagli occhi miei”(scena settima dell’ultimo atto) e nel bellissimo duetto del terzo atto fra Arbace e Mandane (“Tu vuoi ch’io viva”).

 

A completare i canonici – per l’opera italiana del Settecento – sei ruoli vocali, devo citare i corretti e interessanti Anicio Zorzi Giustiniani (nel ruolo del titolo) e il mezzosoprano Rosa Bove (Semira, sorella di Arbace).

 

L’Orchestra Internazionale d’Italia, presente ogni anno a Martina Franca, è stata qui “riorganizzata” dal maestro concertatore e direttore Corrado Rovaris in “Ensemble Barocco”: una compagine ridotta, come da organico previsto, e mista, per la presenza di strumenti d’epoca come il clavicembalo (suonato dallo stesso direttore) e i liuti (Richard Savino), con esiti acustici compatti ma nitidi, apprezzati dal pubblico con gli applausi finali.

 

 

Artaserse
Dramma per musica in tre atti


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