«Non
mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e al contempo
così presente nel mondo»: con questa citazione di Albert Camus inizia Detachment, il nuovo film del regista
britannico Tony Kaye, che il
pubblico senzaltro ricorderà per American
History X (USA, 1998). Kaye torna a parlare della società americana e
segnatamente della pubblica istruzione, tema già presente in nuce proprio nel film del ‘98. Ora, se la frase di Camus, negli
incantevoli titoli di testa in stop-motion
apre il film, a unaltra citazione – stavolta letta a viva voce dallinterprete
principale, Adrien Brody – è affidato
il finale. Si tratta di un brano tratto dal racconto di Edgar Allan Poe La caduta della casa degli Usher, qui decadente
metafora della scuola, intesa come istituzione ed edificio simbolico. Daltronde
la stessa grafica di gusto parisien,
scandisce con titoli simili – disegnati con gessi colorati su una lavagna di
ardesia e animati in stop-motion –
gli episodi più significativi del film.
Henry
Barthes (Adrien
Brody) è un silenzioso e malinconico supplente di letteratura alle scuole
superiori. Quando viene assegnato a tempo determinato a una scuola pubblica della
depressa periferia americana, arriva per lui il momento in cui crede di poter
«fare la differenza», come confessa in una sorta di intervista-documento che
funge da “coro greco”, i cui stralci si alternano alla linea narrativa principale
del film. Henry spera cioè di poter lasciare a quegli studenti dimenticati
dalla società e dalle loro famiglie, se non un insegnamento, per lo meno un
messaggio di fiducia, nel futuro e in se stessi. Come spesso accade, anche per
il maestro ci saranno lezioni da imparare.
A
poco a poco nel corso del film emerge il vissuto del protagonista, attraverso
ripetuti e incompiuti flashback che,
come brandelli di una fotografia fatta in mille pezzi, si riaffacciano
prepotentemente alla memoria del protagonista e alla vista dello spettatore,
rendendoli entrambi consapevoli di un passato altrettanto doloroso e
travagliato che il presente di quei giovani allievi. Le immagini di questi flash di ricordi, virate in seppia,
sgranate e prive di dialoghi, somigliano a sbiadite polaroid. Spesso si tratta
di dettagli e primissimi piani “instabili”: una cifra registica, questa, che caratterizza
tutto il film, stabilendo fin dalle prime inquadrature un codice di lettura che
si vuole realistico, se non documentaristico. Luso insistito della macchina a
mano, insieme al flou, definisce lo
stile visivo del film, assumendo in più casi una specifica connotazione
semantica. Ad esempio, in una delle prime scene in cui Henry si aggira per i
corridoi della nuova scuola, la camera indugia in una carrellata a seguire sul
personaggio, che sfoca sempre più il quadro, man mano che si avvicina al soggetto
ripreso: è un ossimoro visivo che ne traduce iconograficamente la condizione
mentale. Come a dire: via via che mette
a fuoco i suoi problemi – il passato, riflesso nel volto degli adolescenti problematici
che tenta di istruire – è inevitabile per Henry, assuefatto a un rigido
autocontrollo, perdere il dominio di sé. Non a caso lincontro con la prostituta
adolescente Erica e quello con linfelice studentessa Meredith, che funzionano
per lui come specchi deformanti del bambino che è stato, sfoceranno in una
scenata isterica del tutto imprevedibile.
Nonostante
il film sia visivamente e semanticamente ricco e sfaccettato, non manca qualche
caduta di stile, come leccessiva tirata memore de Lattimo fuggente (Peter Weir, 1989) che lappassionato insegnante
rivolge ai suoi studenti o come il dialogo con il nonno delirante, in cui
“impersona” la madre, con tanto di contraffazione della voce. La maggior parte
dei personaggi risulta inoltre alquanto stereotipata: ladolescente triste e
cicciottella, la ragazza facile ma sensibile, linsegnante anziano e rassegnato
che si rivela invece il più lucido ed equilibrato… cè insomma tutto un
carosello di ruoli ben definiti e convenzionali che potrebbero costringere a
etichettare Detachment come un film a
vocazione pedagogica destinato agli adolescenti. Eppure cè qualcosa di più: a
farne unopera di valore non è tanto il racconto, che in fondo non dice niente
di nuovo e suona piuttosto retorico, quanto
una sincerità dintenti che emerge tra le maglie della sceneggiatura, della
delicata fotografia e della sapiente recitazione. Che tutti abbiamo bisogno di
un appiglio, di una guida, di qualcosa in cui credere, è tanto vero da
risultare ovvio e banale, ma cè modo e modo di dirlo e Detachment ha trovato quello giusto. A dare spessore ai personaggi interviene
un cast di ottimi attori, quasi tutti nomi noti a cominciare dal protagonista Adrien Brody, mirabile nellinfondere
alla sua maschera malinconica un fervente vigore, pur nella recitazione
minimalista e controllata, come il giovane professore che interpreta. Lievemente
meno convincente Lucy Liu, la cui
interpretazione della psicologa della scuola risulta un po anaffettiva. Tra
gli altri numerosi nomi di spicco James
Caan impersona magnificamente il ruolo del signor Seaboldt, consumato e
disincantato insegnante. Una menzione a parte va a Marcia Gay Harden, per la sua nervosa e appassionata Carol Dearden,
preside della scuola. Il personaggio in sé del resto è un piccolo capolavoro di
virtuosismo: carico delle già dette sbavature, la sua forza sta nella relazione
di simmetria che instaura con la scuola, di nuovo intesa come edificio
simbolico e dunque istituzione, per cui la rovina delluna è inscindibile da
quella dellaltra.
La
caduta della scuola, come quella della casa degli Usher cantata da Poe, è il
tema della bellissima sequenza lirica finale con foglie autunnali, mobili
rovesciati e fogli bianchi sparsi a terra per i corridoi e le aule ormai vuote
delledificio: efficace metafora di unistituzione alla deriva, incapace oggi
più che mai di fornire quellappiglio, quella guida rifiutata eppure agognata,
ai suoi studenti recalcitranti. Di fronte a una simile situazione di impasse, il malinconico Henry Barthes
confessa di sentirsi in uno stato di detachment
e prima dei titoli di coda la stessa parola, quella del titolo, campeggia sul
fondo dardesia di una lavagna, ma la sillabazione simbolicamente manda a capo
il suffisso “–ment”, in una metafora visiva e verbale del necessario distacco
della psiche, ma non del corpo, inevitabilmente partecipe dei fatti. Presente
eppure assente, diviso tra lanelito a intervenire e una sensazione di profonda
impotenza, tanto lacerante da spingere allindifferenza per essere sopportata –
al distacco appunto – Kaye (e con lui Henry) non suggerisce soluzioni
possibili, ma è già molto laver posto il problema.
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