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La caduta della scuola pubblica

di Elisa Uffreduzzi
  Detachment
Data di pubblicazione su web 18/07/2012  

«Non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me stesso e al contempo così presente nel mondo»: con questa citazione di Albert Camus inizia Detachment, il nuovo film del regista britannico Tony Kaye, che il pubblico senz’altro ricorderà per American History X (USA, 1998). Kaye torna a parlare della società americana e segnatamente della pubblica istruzione, tema già presente in nuce proprio nel film del ‘98. Ora, se la frase di Camus, negli incantevoli titoli di testa in stop-motion apre il film, a un’altra citazione –  stavolta letta a viva voce dall’interprete principale, Adrien Brody – è affidato il finale. Si tratta di un brano tratto dal racconto di Edgar Allan Poe La caduta della casa degli Usher, qui decadente metafora della scuola, intesa come istituzione ed edificio simbolico. D’altronde la stessa grafica di gusto parisien, scandisce con titoli simili – disegnati con gessi colorati su una lavagna di ardesia e animati in stop-motion – gli episodi più significativi del film. 

Henry Barthes (Adrien Brody) è un silenzioso e malinconico supplente di letteratura alle scuole superiori. Quando viene assegnato a tempo determinato a una scuola pubblica della depressa periferia americana, arriva per lui il momento in cui crede di poter «fare la differenza», come confessa in una sorta di intervista-documento che funge da “coro greco”, i cui stralci si alternano alla linea narrativa principale del film. Henry spera cioè di poter lasciare a quegli studenti dimenticati dalla società e dalle loro famiglie, se non un insegnamento, per lo meno un messaggio di fiducia, nel futuro e in se stessi. Come spesso accade, anche per il maestro ci saranno lezioni da imparare.

A poco a poco nel corso del film emerge il vissuto del protagonista, attraverso ripetuti e incompiuti flashback che, come brandelli di una fotografia fatta in mille pezzi, si riaffacciano prepotentemente alla memoria del protagonista e alla vista dello spettatore, rendendoli entrambi consapevoli di un passato altrettanto doloroso e travagliato che il presente di quei giovani allievi. Le immagini di questi flash di ricordi, virate in seppia, sgranate e prive di dialoghi, somigliano a sbiadite polaroid. Spesso si tratta di dettagli e primissimi piani “instabili”: una cifra registica, questa, che caratterizza tutto il film, stabilendo fin dalle prime inquadrature un codice di lettura che si vuole realistico, se non documentaristico. L’uso insistito della macchina a mano, insieme al flou, definisce lo stile visivo del film, assumendo in più casi una specifica connotazione semantica. Ad esempio, in una delle prime scene in cui Henry si aggira per i corridoi della nuova scuola, la camera indugia in una carrellata a seguire sul personaggio, che sfoca sempre più il quadro, man mano che si avvicina al soggetto ripreso: è un ossimoro visivo che ne traduce iconograficamente la condizione mentale. Come a dire:  via via che mette a fuoco i suoi problemi – il passato, riflesso nel volto degli adolescenti problematici che tenta di istruire – è inevitabile per Henry, assuefatto a un rigido autocontrollo, perdere il dominio di sé.  Non a caso l’incontro con la prostituta adolescente Erica e quello con l’infelice studentessa Meredith, che funzionano per lui come specchi deformanti del bambino che è stato, sfoceranno in una scenata isterica del tutto imprevedibile.

Nonostante il film sia visivamente e semanticamente ricco e sfaccettato, non manca qualche caduta di stile, come l’eccessiva tirata memore de L’attimo fuggente (Peter Weir, 1989) che l’appassionato insegnante rivolge ai suoi studenti o come il dialogo con il nonno delirante, in cui “impersona” la madre, con tanto di contraffazione della voce. La maggior parte dei personaggi risulta inoltre alquanto stereotipata: l’adolescente triste e cicciottella, la ragazza facile ma sensibile, l’insegnante anziano e rassegnato che si rivela invece il più lucido ed equilibrato… c’è insomma tutto un carosello di ruoli ben definiti e convenzionali che potrebbero costringere a etichettare Detachment come un film a vocazione pedagogica destinato agli adolescenti. Eppure c’è qualcosa di più: a farne un’opera di valore non è tanto il racconto, che in fondo non dice niente di nuovo e suona piuttosto  retorico, quanto una sincerità d’intenti che emerge tra le maglie della sceneggiatura, della delicata fotografia e della sapiente recitazione. Che tutti abbiamo bisogno di un appiglio, di una guida, di qualcosa in cui credere, è tanto vero da risultare ovvio e banale, ma c’è modo e modo di dirlo e Detachment ha trovato quello giusto. A dare spessore ai personaggi interviene un cast di ottimi attori, quasi tutti nomi noti a cominciare dal protagonista Adrien Brody, mirabile nell’infondere alla sua maschera malinconica un fervente vigore, pur nella recitazione minimalista e controllata, come il giovane professore che interpreta. Lievemente meno convincente Lucy Liu, la cui interpretazione della psicologa della scuola risulta un po’ anaffettiva. Tra gli altri numerosi nomi di spicco James Caan impersona magnificamente il ruolo del signor Seaboldt, consumato e disincantato insegnante. Una menzione a parte va a Marcia Gay Harden, per la sua nervosa e appassionata Carol Dearden, preside della scuola. Il personaggio in sé del resto è un piccolo capolavoro di virtuosismo: carico delle già dette sbavature, la sua forza sta nella relazione di simmetria che instaura con la scuola, di nuovo intesa come edificio simbolico e dunque istituzione, per cui la rovina dell’una è inscindibile da quella dell’altra.

La caduta della scuola, come quella della casa degli Usher cantata da Poe, è il tema della bellissima sequenza lirica finale con foglie autunnali, mobili rovesciati e fogli bianchi sparsi a terra per i corridoi e le aule ormai vuote dell’edificio: efficace metafora di un’istituzione alla deriva, incapace oggi più che mai di fornire quell’appiglio, quella guida rifiutata eppure agognata, ai suoi studenti recalcitranti. Di fronte a una simile situazione di impasse, il malinconico Henry Barthes confessa di sentirsi in uno stato di detachment e prima dei titoli di coda la stessa parola, quella del titolo, campeggia sul fondo d’ardesia di una lavagna, ma la sillabazione simbolicamente manda a capo il suffisso “–ment”, in una metafora visiva e verbale del necessario distacco della psiche, ma non del corpo, inevitabilmente partecipe dei fatti. Presente eppure assente, diviso tra l’anelito a intervenire e una sensazione di profonda impotenza, tanto lacerante da spingere all’indifferenza per essere sopportata – al distacco appunto – Kaye (e con lui Henry) non suggerisce soluzioni possibili, ma è già molto l’aver posto il problema.




Detachment
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