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Quando in due non basta

di Paolo Patrizi
  Due teste e una ragazza
Data di pubblicazione su web 16/07/2012  

 

«Io però posso dirti che è felicità ancora più grande parlare con vocaboli esatti in favore della semplicità»: Isidora Žebeljan prende a memento questa frase di Thomas Mann nelle Teste scambiate; ed è, forse, l’unico istante di autentica fedeltà al racconto da parte di un’opera che utilizza come puro spunto questo vertice del Mann allegorico-umoristico, discostandosene nello spirito. D’altronde la Žebeljan, classe 1967, nativa di Belgrado, è musicista in cui è radicato un senso “etnico” della drammaturgia musicale e il suo gusto per il fantastico, tipicamente balcanico, deve averle fatto scattare un’empatia con questa vicenda basata su un’antica leggenda indiana che a Mann – più filtrato intellettualmente, più ironico verso i riti di civiltà lontane, più europeo insomma – restò ignota.

 

Venuta meno la spinta metaforica dello scrittore tedesco (una favola esotica come specchio della crisi dell’uomo del Novecento) resta solo l’involucro della leggenda, e non solo perché Due teste e una ragazza opta, al contrario delle Teste scambiate, per un lieto fine anch’esso eminentemente favolistico. Ma se la Žebeljan drammaturga si discosta dal suo ingombrante modello letterario – aveva peraltro già attinto a Mann in un’opera ispirata a L’eletto – la Žebeljan compositrice rispetta a puntino quel «parlare con vocaboli esatti in favore della semplicità» che è una delle frasi-chiave del racconto: la sua scrittura è una sintesi di musica colta e tradizioni orali, vena improvvisativa (ma calibrata al millimetro) e senso delle grandi strutture (sia pure restituite sotto forma miniaturizzata, quando non di puro aforisma musicale). Ne scaturisce un polistilismo che non sempre dà idea della reale personalità linguistica dell’autrice – l’alfa e l’omega delle suggestioni si direbbero Sostakoviĉ, per l’estrosità ritmica, e Kurtág, per il gusto della frammentarietà intesa non come dispersione ma reductio ad unitatem – e tuttavia affascina sia per esuberanza (colpisce l’uso autenticamente drammaturgico delle sincopi) sia per afflato lirico (l’idea di “opera-fiaba comica”, come recita il sottotitolo del libretto, è resa alla perfezione). 

 


Un momento dell'opera (Studio Infinito Fotografia)

 

Le analogie con altre opere di soggetto indiano – Padmavati di Roussel, alla lontana pure il Bizet dei Pescatori di perle – sono solo di facciata (sebbene il rapporto subliminalmente erotico tra i due protagonisti maschili di Due teste e una ragazza possa avere sotterranee analogie tra quelle di Nadir e Zurga nei Pęcheurs), ma la Žebeljan cura la scrittura vocale con l’attenzione dell’operista di razza. Così i due amici che agli occhi della bella Padma si completano a vicenda – dando luogo loro malgrado a un ménage à trois in cui, quando la ragazza giace con uno dei due, inevitabilmente sentirà la mancanza dell’altro – hanno entrambi registro di baritono, dando vita a un singolare gioco di specchi: il più fine (per tratti e intelletto) ma meno prestante Chandra alterna la propria chiave di Fa a un non altrettanto virile falsetto, inequivocabile spia dell’insoddisfazione di sua moglie in camera da letto; mentre quando il miracoloso pasticcio delle teste scambiate avrà luogo, auspice in via preterintenzionale la dea Kalì, spetterà al nerboruto e semplicione Bathi trascolorare dalla baritonalità robusta alla voce di testa.

 

Lo scambio delle teste porterà non alla perfezione, bensì al reciproco annientamento dei rispettivi doni di natura: il fisico prestante s’inflaccidisce appaiato a una testa troppo raffinata, la delicatezza dei lineamenti si tramuta in grossolanità del tratto quando quel capo s’incolla a un corpo d’altra provenienza. L’opera, tuttavia, glissa sugli ironici rovelli di Mann (è il corpo o l’intelletto a sancire la paternità biologica del bambino che Padma porta in grembo? Unire il meglio, o il peggio, del marito e dell’amante legalizza la trasgressione o aggiunge al lecito il fascino del proibito?), sciorinando invece un sorridente apologo al femminile: sensibile alle esigenze coniugali della sposina più che al dramma dei due amici, e in cui pure Kalì è empatica con le necessità fisiologiche di questo mondo.

 

Per l’intellettuale Chandra, la Žebeljan concepisce una scrittura più classicamente operistica, per il rustico Bathi il linguaggio si avvicina invece a una sorta di Sprechgesang folklorico: e, in effetti, il mingherlino Piotr Prochera sfoggia fonazione e proiezione da più tradizionale baritono lirico rispetto all’aitante Ivan Ludlow, che però gestisce meglio del collega i ricorrenti appuntamenti con il falsetto. A un melos popolare e un vocalismo che discende direttamente dal patrimonio canoro serbo guarda invece la scrittura di Padma, cui Aneta Iliĉ presta sensibilità di cantante classico-etnica e “vibrato” altamente espressivo. Con il personaggio di Kalì si torna a un linguaggio operistico, sia pure sotto forma parodistica: una sorta di Regina della notte in sedicesimo, meno temibile ma altrettanto furiosa verso le scempiaggini degli umani, affrontata dal soprano Aile Asszonyi con autorevole eleganza e contenuto virtuosismo.

 


Un momento dell'azione (Studio Infinito Fotografia)

 

Per il personaggio dell’indovino, la Žebeljan ne affida le laconiche parole non a un cantante ma a uno strumento. Si tratta d’un procedimento antico nel teatro musicale moderno (senza scomodare Pierino e il lupo, basterà ricordare come il Maderna di Don Perlimplin abbia affidato al flauto le battute del protagonista), ma Due teste e una ragazza lo sfrutta con freschezza inesausta e comicità esilarante: sia per il talento del clarinettista prescelto – un Alessandro Carbonare felpatissimo nella sua ricchezza coloristica – sia per la sfrenata fisicità con cui il mimo-acrobata Peeter Gross lo “doppia” in palcoscenico. E doti acrobatiche ha pure l’attore Nikola Duriĉko, impegnato quale narratore: non un affabulatore ironicamente distaccato e con una punta di occidentale superiorità, come lo era nel racconto Thomas Mann, ma una sorta di collante tra i vari episodi che si susseguono e voce della modernità che osserva, dall’esterno, la leggenda senza tempo che si va a raccontare.

 

Ad amalgamare tutto, però, provvedono soprattutto la musica e i suoi esecutori: gli undici fantastici strumentisti dell’Orchestra Žebeljan suonano divertendo e divertendosi, con una precisione ritmica innata e resa pressoché infallibile dalla direzione di Premil Petrović, trasformandosi all’occasione anche in coristi. E la messinscena di Ran Arthur Braun asseconda il flusso sonoro, racconta per immagini stilizzate e spiritose, usa i video senza parsimonia ma con estrema funzionalità. La “prima” mondiale di Siena si è limitata a un’unica recita, in attesa che Due teste e una ragazza approdi a Belgrado: ma finalmente, dopo le delusioni degli ultimi anni, la vocazione delle Settimane Musicali Senesi a commissionare una novità assoluta è approdata a un gioiellino.



Due teste e una ragazza



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