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L'eredità sentimentale di Prospero II

di Assunta Petrosillo
  Yo, el heredero
Data di pubblicazione su web 28/06/2012  
                                 

In un festival dal sapore internazionale è la tradizione a vincere. È il teatro di Eduardo – con la sua scrittura, il suo umorismo, la sua vivacità, il suo realismo – a fare scuola. E Francesco Saponaro, classe 1970, è degno erede di tale drammaturgia, di tale linguaggio.

 

Nella fucina di Eduardo, il Teatro San Ferdinando, rivive un grande e sempre attuale classico. Il testo di Io, l’erede  – del 1942, inserito nella Cantata dei giorni pari – si concentra sul tema della beneficenza, descritta come una pratica vantaggiosa più per chi la esercita che per chi la riceve. Si tratta di una critica alla società borghese che Saponaro attualizza in maniera sapiente. Lo spettacolo approda a Napoli per chiudere la prima parte del Napoli Teatro Festival Italia, dopo aver riscosso un successo di critica e pubblico al Teatro Maria Guerrero di Madrid.

 

Sul palcoscenico − che fu del grande maestro partenopeo − si muove una straordinaria compagnia spagnola che attraverso una sapiente interpretazione rende omaggio all’arte teatrale.

 
La storia è quella di un uomo − Prospero Ribera – che vive in qualità di ospite per ben trentasette anni presso la famiglia Selciano, benefattori di diseredati. Il signor Prospero muore e suo figlio Ludovico si presenta in casa Selciano pretendendo l’eredità di suo padre, ovvero l’accoglienza in casa. Ludovico per rafforzare la sua tesi accusa i Selciano di aver reso il padre un parassita, un disertore della vita, e li dichiara colpevoli di non averlo emancipato. Per questo motivo li convince (non senza minacce) ad ospitarlo in casa, dando loro la possibilità di continuare ad esercitare “la parte” dei benefattori.

 

Saponaro rispetta l’età dei personaggi come indicato dall’autore: quarantenni, non più figli e non ancora genitori. Utilizza, come lui stesso afferma, la prima edizione testuale, spostando l’azione agli inizi degli anni ’50 del Novecento. L’obiettivo è quello di raccontare una borghesia che nonostante la guerra rimane fedele ai propri principi di reazionario conservatorismo, di ipocrisia della carità cristiana.

 

E ci riesce attraverso il sarcasmo e l’ironia. Ludovico Ribera (Ernesto Alterio) arriva dal mare, sconosciuto ai Selciano, con sottobraccio una scatola – contenete le carte del padre defunto – insinuandosi nella casa dei benefattori, smascherandone i vizi e le furbizie. Il regista tratteggia un personaggio bizzarro, sovversivo, che come un Pulcinella stermina con la sua ambivalenza (demoniaca e sardonica) la finta carità borghese. E Alterio – attraverso i suoi sguardi, ammiccamenti, salti, corse, risate, ghigni – riesce a far trasmigrare dalla carta un personaggio autentico, tristemente reale. È lui il vero protagonista, nonostante la bravura dei suoi colleghi – tra i quali ci piace ricordare Concha Cuetos (Dorotea), José Manuel Seda (Amedeo), Yoima Valdés (Margherita) e Natalie Pinot (Caterina).

  

Interessante la scelta scenica dei personaggi, ognuno ben circoscritto in uno spazio definito, una sorta di cerchio magico shakespeariano, nel quale nessun’altro può entrare, perché è necessario mantenere le proprie posizioni, i propri ruoli. Si assiste da una parte ad una famiglia numerosa che da generazioni si tramanda la virtù della beneficenza: una vecchia zia, un amministratore, un padrone di casa e sua moglie e l’immancabile servitù che origlia da dietro una porta. Dall’altra un uomo ribelle, solo, povero, straniero che come unico orpello porta con sé quella scatola dalla quale, come da un vaso di Pandora, tirerà fuori i segreti più infimi di quei falsi borghesi.

 

È lui a scardinare lo spazio, a correre da una parte all’altra del proscenio, a catalizzare l’attenzione prima di tutto dei Selciano e poi degli spettatori, divertiti in platea. Le distanze si abbattono soprattutto nella scena del pranzo a tavola − dove con una strizzatina d’occhio a Miseria e Nobiltà di Totò – Ludovico (che preferisce farsi chiamare Prospero II) inscena una grande abbuffata di spaghetti, serviti e mangiati con le mani.

 
La stessa idea del cumulo di indumenti, posto sulla scena dall’inizio alla fine della rappresentazione, da trasformare in vestitini per bambini, non vuole essere altro che un richiamo al cumulo di ipocrisie sotto il quale si nasconde il finto perbenismo borghese italiota.

 

A rendere accattivante una recitazione dal ritmo incalzante, risultano molto incisivi gli interventi musicali − con la voce registrata di Enzo Moscato − con le canzoni classiche della tradizione da Napulitanata, a Palomma, da ‘Mmiez’ ‘o ggrano a Cinematografo.




Yo, el heredero
cast cast & credits
 
         



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 
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