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Secondo natura

di Paolo Patrizi
  A midsummer night's dream
Data di pubblicazione su web 25/06/2012  

 

«L’uomo non ha alcuna musica dentro di sé, è nato per gli inganni e il tradimento», ammonisce Shakespeare nel Mercante di Venezia: e tuttavia – si potrebbe proseguire – quando l’uomo torna alla natura, e scende a patti con il suo mondo fantastico, la voce primigenia della musica prende a riaffacciarsi, dando luogo alla più musicale tra le commedie del Bardo di Stratford-on-Avon. Lo mostra bene questo nuovo allestimento del Sogno d’una notte di mezza estate, la più fresca e stilisticamente diacronica tra le opere di Britten, che il regista Paul Curran riconduce ad autentico memento a non contrastare le sollecitazioni della natura, anche nelle sue pulsioni più ferine.

 

Vero uomo di palcoscenico (dunque consapevole che la continuità dell’arcata teatrale ha bisogno più di mestiere che di genialità), Curran dipana con scioltezza tutti i meccanismi di questo testo stratificato, in una calibrata dialettica tra incanto lirico e farsa scatenata che rende giustizia, senza giustapporli, ai due fondamentali registri dell’opera. Resta un po’ sacrificata la morale, niente affatto rasserenante, che serpeggia sottopelle: ogni amore, degli uomini come delle creature extraterrene, è irragionevole. Ma è un corollario su cui lo stesso Britten sfuma molto, rispetto all’originale shakespeariano.

 


Ellie Dehn (Helene), Phillip Addis (Demetrius), Shawn Mathey
(Lysander) e Tamara Gura (Hermia). Foto: Silvia Lelli
 

Curran costruisce attorno al testo una drammaturgia all’apparenza artificiosa, se si pensa che la commedia già presenta in sé tre diversi piani narrativi: qui tutto ruota attorno all’inaugurazione d’un improbabile museo di arte contemporanea, e prima che la musica cominci assistiamo al viavai delle ultime pulizie e dei politici pronti per il taglio del nastro. Tuttavia l’ambientazione adombrante una fittizia natura incontaminata, ma in realtà posticcia e kitsch (la ricostruzione di un tempio Maya all’interno del museo), dà luogo a quella contrapposizione tra istinti naturali e sovrastrutture umane di cui si diceva; mentre l’esotismo implicito in un simile scenario rende più fluido il trascolorare dal mondo delle donne e degli uomini a quello delle fate e degli elfi. Le femmine – umane o extraumane che siano – appaiono comunque privilegiate, perché Curran è molto abile a lavorare sulla fisicità e, nelle sue regie operistiche, le donne sono spesso eroticissime.

 

È un erotismo da fumetto, smaccatamente finto (come si conviene alla finzione teatrale) nella modanatura d’un sex-appeal tutto sopra le righe, eppure tanto ironico quanto conturbante: sebbene gli esiti vocali non siano di pari livello in tutte e tre, Claudia Boyle, Tamara Gura e Ellie Dehn sono impagabili nel dare carne a una Tytania languidamente dominatrice, a un’Hermia dolce e bassottina, ma all’occorrenza scatenata come poche, e a un’Helena stangona occhialuta, insicura della propria seduttività e ribollentemente masochista.

 


Lawrence Zazzo (Oberon) e Claudia Boyle (Tytania).
Foto: Silvia Lelli
 

Quanto al terzo livello ambientale e narrativo (quello del mondo umano “basso” – la confraternita degli attori dilettanti – in opposizione al mondo umano “alto” delle coppie aristocratiche e a quello delle creature fatate), è risolto anch’esso molto bene: la dimensione buffonesca scorre senza inibizioni, mentre il meccanismo del teatro nel teatro, irrisolto in tanti allestimenti shakespeariani e britteniani del Midsummer Night’s Dream, qui non sembra un’appendice pleonastica, ma il vero collante tra gli altri due piani della storia.

 

La miscela di sapienza costruttiva e scorrevolezza d’impaginazione che caratterizza questa regia, però, poco funzionerebbe se non accompagnata da una lettura musicale di segno analogo. Qui, per fortuna, c’era. James Conlon non è solo un grande direttore, ma un concertatore fortemente teatrale: attento alle singole individualità timbriche – fondamentali per la dimensione evocativa delle scene fantastiche – senza perdere di vista la compattezza architettonica; capace di accompagnamenti debitamente diafani, ma consapevole che i momenti ridanciani e terragni hanno bisogno di tutt’altri impasti. Ne sortisce un suono singolarmente corposo per l’organico sfoltito di questa partitura, e che tuttavia nulla perde in duttilità: anche se oggi, forse, siamo avvezzi a Britten più flessibili e “cantabili”.

 

La vocalità dell’opera è d’altronde ricchissima: da arcaici retaggi belcantistici, debitamente filtrati dal novecentismo di Britten (l’uso d’un controtenore per il personaggio di Oberon ha una valenza più fantastico-straniante che neobarocca), a un lirismo ottocentesco e italianizzante che informa quasi tutti i momenti patetici. Il cast affronta la prova con proteiforme sensibilità stilistica e prove attoriali maiuscole, sebbene Lawrence Zazzo appaia un po’ compresso, anche in termini di volume, rispetto ai suoi stratosferici Händel e certe tensioni in acuto della Boyle non si confacciano al sensuale patetismo di Tytania.

 

Dell’icastica carnalità della Gura e della Dehn si è detto (anche se la prima, avvantaggiata da un bel colore mezzosopranile, ha più spiccata individualità timbrica della seconda), ma pure i rispettivi amanti scambiati – il Lysander di Shawn Matey e il Demetrius di Phillip Addis – si fanno onore per suono e accento: un tenore e un baritono efficacissimi nei panni degli amici-rivali, diciamo pure un Ferrando e un Guglielmo di Così fan tutte bell’e pronti.

 


Michael Batten (Puck), Shawn Mathey (Lysander), Tamara Gura
(Hermia), Phillip Addis (Demetrius) e Ellie Dehn (Helene).
Foto: Silvia Lelli


La coppia regale dice meno (Natascha Petrinski è un’Hippolyta autorevole ma ingolata, Peter Savidge si lascia sfuggire, dietro una generica nobiltà, i connotati ambigui del personaggio di Teseo), mentre il gruppo plebeo dei teatranti pasticcioni fa buon canto e ottimo teatro. Spicca ovviamente Bottom, creazione shakespeariana fra le più geniali, qui affidata allo specialista Peter Rose: un “attore vocale” consapevole che la comicità passa attraverso un fraseggio calibrato piuttosto che un’emissione caricata. Più farsesco e scatenato Peter Strummer, massiccio basso en travesti, ed esilaranti – nel loro mix di aplomb e stolidità – gli altri quattro compari, con una menzione particolare per Filippo Bettoschi, snodato come un cartone animato e di pronuncia inglese impeccabilmente oxoniana.

A giocare sulla parola, però, è soprattutto il Puck – unico ruolo non cantato dell’opera – del “danzattore” Michael Batten, acrobatico ballerino e dicitore senza accademismi. Curran ne fa una creatura mercuriale e pansessuale, ludica e non del tutto limpida: ma ogni ambiguità si stempera in sorriso, con una serena accettazione d’ogni legge di natura. Basta saper ascoltare la voce dei folletti, incarnati dal Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera con professionalità musicale – verrebbe da dire – più inglese che italiana.



A midsummer night's dream



cast cast & credits
 
trama trama

 


Anthony Dean
Griffey (Flute) e
Peter Rose (Bottom).
Foto: Silvia Lelli



 
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