«Mi
sembra di averti lasciato poco fa; che cosa non è accaduto "poco fa"
se lo si rivive nella memoria?» queste semplici parole di Seneca allamico
Lucilio, a distanza di secoli mantengono intatta la loro efficacia e tornano
prepotentemente alla mente di fronte al pianto irrefrenabile di Roman Polanski,
anchegli a colloquio con un amico di vecchia data, che nonostante i molti anni
trascorsi dalla scomparsa della madre, deportata e uccisa dai nazisti ad Auschwitz,
piange oggi le lacrime che – ci racconta – non sgorgarono allora, aggiungendo
forse al dolore per la perdita della madre, quello della pietà per il piccolo
orfano che è stato.
Presentato
alla 65Ş edizione del Festival di Cannes (sezione Special screenings), Roman Polanski: A Film Memoir è un documentario
sulla travagliata vita del regista di origine polacca. Nato a Parigi nel 1933,
i genitori vollero poi sconsideratamente fare ritorno alla natia Polonia nel
1936, andando così incontro al nazismo e alloscuro futuro che questo avrebbe
riservato alla popolazione ebraica.
Comincia così per Polanski un
tormentato percorso esistenziale, dalla difficile infanzia nel ghetto di
Cracovia agli esordi da regista in Polonia, carriera poi proseguita a Parigi, in
Gran Bretagna e negli Stati Uniti, fino allapogeo rappresentato dallOscar per
Il pianista nel 2003, il film al
quale – ci confida – si sente tanto legato, che se dovesse sceglierne uno da
mettere sulla propria lapide, le sue preferenze ricadrebbero senzaltro su
questo.
Una
vita funestata dalla tragedia dell'omicidio della moglie incinta Sharon Tate
(1969); poi larresto nel 1977 per la violenza sessuale – per altro ammessa –
ai danni di una minorenne e, dopo il rilascio, la continua fuga da un paese allaltro
per evitare lestradizione, fino al 2009, quando Polanski venne di nuovo arrestato,
mentre era diretto allo Zurigo Film Festival, dove avrebbe dovuto ritirare un
premio alla carriera. Arriviamo così a Gstaad, la ridente cittadina svizzera
dove il regista ha scontato la pena detentiva agli arresti domiciliari e dove
sono state registrate le conversazioni (terminate nel 2010, dopo la revoca
dellarresto) con lamico e produttore Andrew
Braunsberg, solidale anche in questa difficile avventura. Su un vissuto
tanto burrascoso, gettano luce il ricordo delle emozioni, da quelle
dellinfanzia a quelle delletà matura e la serenità finalmente raggiunta
accanto alla moglie, Emmanuelle Seigner, dalla quale ha avuto due figli.
Tra
i momenti più incisivi del film, lintervista al Larry King Live – il celebre programma televisivo della CNN – della
vittima della violenza, che, oggi adulta, sottolinea come si senta più
danneggiata dallassedio dei media, che non da un uomo che pur innegabilmente
colpevole, ha scontato la sua pena.
Il
regista Laurent Bouzereau,
specializzato nella realizzazione di documentari sul cinema – da quelli di
grandi registi, come Steven Spielberg, a quelli sui grandi film – realizza in Roman Polanski: A Film Memoir un docu-film al “grado zero”, alla stregua
dellintervista filmata. Cinematograficamente parlando infatti, lopera è
quanto di più elementare si possa immaginare e somiglia molto a uno di quegli
speciali dedicati a politici di spicco, inseriti nelle rubriche di
approfondimento dei vari telegiornali: un giornalista e un interlocutore in
campo-controcampo – vengono rispettivamente inquadrati allorché prendono la
parola, mentre inserti di filmati intervengono a chiarire fatti e protagonisti.
Ora questo, lungi dal rappresentare un punto di demerito per il film, più
semplicemente ne costituisce la chiave di lettura, lontano da ogni intento
celebrativo. Quello che interessa Braunsberg, artefice del progetto filmico,
non è infatti lapologia, né tantomeno lidolatria di un personaggio controverso
come il regista franco-polacco, quanto piuttosto restituire – come più volte
ribadisce – il più distaccatamente possibile, lesperienza di un vissuto
singolarmente travagliato e denso di verità, emotiva e intellettuale. Certo,
Braunsberg è legato a Polanski da unamicizia e da una collaborazione
professionale di lunga data, tuttavia la tecnica di ripresa, la scelta stessa
del regista e – non ultima – la fotografia “giornalistica”, restituiscono
insieme a uno spaccato di vita che ci sembra piuttosto lucido nel confidare
virtù e torti commessi e subiti, il senso della sostanza umana al di là del
cinema. A proposito della fotografia, si crea un interessante gioco di
contrasto tra il bianco e nero dei ricordi affidati a foto e filmati originali
da un lato e riprese a colori dellintervista dallaltro; gioco che ricalca
landamento sinusoidale della narrazione, tra pathos e cronistoria. Le conversazioni tra Braunsberg e Polanski,
avvenute nella casa di Gstaad del regista, sono istoriate da spezzoni dei suoi
film, footage film, articoli di
giornale, semplici montaggi di fotografie (sulle quali la camera zooma, in e out,
in funzione psicologica) e documenti: un corredo illustrativo che se ricorda da
vicino quello del già menzionato modello del reportage giornalistico, daltronde si ibrida con gli stilemi del
cinema privato, laddove emergono le fotografie di famiglia e, prima ancora,
alle fondamenta del film stesso, nella curiosità antropologica ed emotiva che
sta alla base dellidea stessa di un film
memoir. Volendo condensare lopera in una formula: la sua cifra registica
sta al reportage, come il documento (e non monumento!) a futura memoria sta al cinema
privato. Emerge così, accanto alla sintesi della cronaca, lanalisi della
memoria e proprio là sta il senso di unoperazione cinematografica come questa,
nella precipua volontà di trasmettere al pubblico il senso delluomo oltre la
sequela degli eventi, nella “pâte
humaine”, per dirla con Saint-Exupéry. Quella “pasta umana” decifrabile
nelle lacrime di commozione e nei ricordi che Polanski generosamente condivide
con il pubblico, spiegando come spesso siano stati la genesi di idee, poi
inserite nei film.
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