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Si può stare dalla parte dei barbari

di Elisa Uffreduzzi
  Il primo uomo
Data di pubblicazione su web 04/05/2012  

«Dovresti scrivere un libro, non un saggio o un articolo, ma un romanzo, perché è nei romanzi che si vede la grande Storia».  Sono grossomodo queste le parole che verso la fine del film il professor Bernard (Denis Podalydès) rivolge a Jacques Cormery (Jacques Gamblin), tornato nella sua terra d’origine, l’Algeria, in un percorso a ritroso sulle tracce del padre, oltreché in veste di giornalista e scrittore, su invito degli studenti dell’Università. Gianni Amelio sembra aver raccolto questo stesso appello, come del resto Albert Camus, autore del romanzo (omonimo) incompiuto e fortemente autobiografico, dal quale è tratto il film. La Storia che vediamo “di sbieco”, attraverso il viaggio di Jacques lungo il filo della memoria, è quella dell’Algeria della fine degli anni Cinquanta e della lotta per l’indipendenza dalla Francia (raggiunta nel 1962). Amelio, Cormery e Camus si sovrappongono e si confondono così in un gioco di specchi che, mentre attiva il discorso metalinguistico che ne consegue, ci parla dell’Algeria di ieri, ma anche di quella di oggi, se è vero che occorre saper leggere il passato per poter interpretare il presente.

Nelle scene dedicate all’intervento presso l’Università e agli attentati, il regista sembra debitore della visione che, della questione algerina, dà Gillo Pontecorvo – ne La battaglia di Algeri (1966) e, ventisei anni dopo (1992), nel documentario per la televisione Ritorno ad Algeri – per la scelta degli episodi, ma anche per il taglio visivo scarno e attento alla dimensione quotidiana.




La fotografia ocra conferisce alle riprese quella patina d’antan che fa de Il primo uomo un film d’atmosfere, prima e più che di sceneggiatura. Non a caso ai dialoghi rarefatti sopperisce l’inquadratura, la cui durata si dilata, per restituire al cinema tutta la magia del “racconto per immagini”. Nel suo pittoricismo, calligrafico eppure mai ridondante, spesso Amelio predilige il reaction shot come filtro del reale, che vediamo dunque di riflesso, attraverso i lunghi primi piani e le mezze figure di Cormery adulto, ma anche bambino. Il regista torna infatti a privilegiare lo sguardo infantile come lente d’ingrandimento sulla vita e sui sentimenti: un milieu nel quale risulta perfettamente a suo agio, come già aveva dimostrato con Il ladro di bambini (1992) e Le chiavi di casa (2004).

Il film procede con un andamento cronologico discontinuo, non solo alternando all’Algeria del 1957 quella dell’infanzia di Jacques, ma anche costruendo una sorta di gioco di scatole cinesi, in cui - di flashback in flashback - arriviamo alla nascita del “primo uomo” del titolo, lo stesso Jacques appunto, ma anche ognuno di noi, con la sua piccola storia persa in quella con la “S” maiuscola.

Mediante brevi movimenti, per lo più agganciati a un personaggio, la macchina da presa sonda lo spazio. Così accade che visitiamo la casa in cui abita la madre seguendo in una stanza Jacques, poi la donna; così è legati a Cormery bambino che scopriamo l’assolata estate algerina, nella splendida sequenza “lirica” sulla spiaggia. Altrove, nel quadro vuoto, irrompe la figura a dare vita all’ambiente. È quanto succede già nella prima inquadratura del film: nel campo lungo fuori fuoco sulla distesa di lapidi al cimitero, irrompe all’improvviso, entrando da sinistra, il becchino, che dialoga con Cormery. Quest’ultimo, trovandosi di fronte a lui – e dunque fuori campo, in un punto imprecisato dietro la macchina da presa – costringe l’interlocutore a uno sguardo quasi in macchina. Più avanti Jacques bambino corre a perdifiato per le scale: la mano entra nel quadro vuoto del corrimano, poi apre la porta dell’appartamento del maestro e quando la oltrepassa è già l’acclamato giornalista occidentale che la sua terra d’origine ora disconosce, ammira, applaude e rifiuta, per le posizioni pacifiste espresse in merito alla lotta per l’indipendenza. Davvero indovinato anche l’espediente che traduce la morte dell’austera nonna, con la voce degli abituali rimproveri che si affievolisce sempre più. La stessa nonna che vediamo protagonista della scena metacinematografica in cui il nipote fa del suo meglio per leggere a lei analfabeta, i titoli del film muto che stanno guardando. Ancora di metalinguaggio è lecito parlare, allorché il maestro mostra agli alunni una serie di diapositive sulla prima guerra mondiale, nel corso della quale Jacques, come Camus, ha perso il padre. Attraverso piccoli giochi di regia come questi, mentre “fa sentire” il mezzo cinematografico, il regista riesce a dare a un film sostanzialmente biografico quel brio che avrebbe potuto risolversi nella piatta descrizione di una serie di eventi personali, peraltro poco significativi. E invece sin da quella prima inquadratura è chiaro il doppio binario sul quale stiamo viaggiando, guidati dall’autore cinematografico certo, ma in primo luogo dalla prosa secca e insieme descrittiva di Camus: da un lato la ricerca delle proprie origini, che sbilancia la narrazione sulla vicenda privata; dall’altro la grande Storia, quella di un Paese diviso e in cerca anch’esso dell’integrità primigenia. Il regista, licenze cinematografiche a parte, dimostra così di aver compreso a pieno le ragioni più intime che animano il romanzo, non soltanto su un piano per così dire sintattico – per cui mutua dalla scrittura camusiana la forma asciutta eppure fluida e ricca di dettagli allo stesso tempo – ma anche a un grado superiore: quello sentimentale e ideologico. Ritroviamo così, tra i motivi cari alla poetica dello scrittore francese, la guerra come assurdo che snatura l’Uomo, tanto ben espressa nelle Lettere a un amico tedesco (1943-44): «è vero che ora siamo nemici?» chiede a un tratto l’anziano amico di sempre a Jacques. Questi significativamente risponde scuotendo appena il capo e lasciando idealmente la risposta al maestro Bernard, verso la fine: «si può stare dalla parte dei barbari», che è più e oltre il mero pacifismo, in un gesto di comprensione che si allontana dalla tolleranza per andare verso la condivisione.




Offre lineamenti e gesti a ragioni tanto ricche e varie, un cast internazionale che annovera fra gli altri Maya Sansa (Catherine Cormery, 1924), l’unica pur brava interprete italiana, mentre nel doppiaggio intervengono nomi di spicco come Pierfrancesco Favino, che presta la voce a Cormery adulto, Kim Rossi Stuart, Sergio Rubini, Ricky Tognazzi e Giancarlo Giannini. Quanto a Jacques Gamblin, la maschera del volto, attraverso impercettibili slittamenti mimici per lo più delegati all’intensità dello sguardo, riesce a far vibrare di pathos le espressioni e i gesti quotidiani, sui quali indugia il film. Sorprende che altrettanto discreta, minimalista e priva di sbavature possa essere anche l’interpretazione di un bambino, come lo è Nino Jouglet (Jacques Cormery bambino).

Amelio non poteva scegliere chiusura migliore per un film suo malgrado incompiuto, come il libro dal quale scaturisce: una finestra si chiude, mentre il finale rimane aperto non tanto sulla grande Storia – che è quella ormai nota allo spettatore di oggi – e nemmeno sulla storia con la “s” minuscola – le singole esistenze e la vicenda di Jacques Cormery, nello specifico che ci riguarda – quanto piuttosto sulla possibilità che la prima impari dalla seconda a non tradirne i principi di fondo, in un perverso meccanismo autolesionista.





Il primo uomo
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