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L'infinita attesa

di Sara Mamone
  Just the Wind
Data di pubblicazione su web 17/02/2012  
                                 

Bisognava arrivare alla fine per avere due film “alla Berlinale”, cioè fortemente sbilanciati sui contenuti, discutibili, destinati a dividere immediatamente la critica e quindi a ri-sollevare il problema di fondo di una cinematografia programmaticamente engagé e cioè quella della sincerità (o, capovolgendo i termini, quello della furberia). Tranne indiscutibili unanimità come quella dello scorso anno per Nader and Simin dell’iraniano Ashgaar Farhadi il più recente percorso delle giurie è stato quello di apprezzamenti più legati all’auspicio che alla verifica, più all’elargizione che alla sanzione. E’ stata quindi un’ alluvione di premi alle cinematografie emergenti, ai paesi umiliati, a giovani donne esordienti. Come nelle vere elargizioni il benefattore si è sempre tirato indietro tanto è vero che il cinema tedesco, pur con eccellenti film, si accontenta di premi marginali dal 1986 (l’ultimo Orso d’oro fu appunto in quell’anno con Stammheim  di Reinhard Hauff) oppure di condivisioni politicamente corrette (nel 2004 con La sposa turca del turco Fatih Akin). Le ultime prove sono dunque quella del giovane ungherese Bence Fliegauf, classe 1974,  e quella del coetaneo quebecois Kim Nguyen (War Witch). Assai simili nelle intenzioni e diametrali nello stile. E, soprattutto, con una differenza di fondo che impone una riflessione divergente, parlando l’uno del proprio villaggio, l’altro del lontanissimo mondo ex coloniale. 

 

Rigorosissima nello stile assorbito dal magistero ormai universale dei fratelli Dardenne questa prova viene dopo molti riconoscimenti (tra cui il forse eccessivo Pardo d’oro del 2007 per Milky Way) ma non ci pare avere le stimmate dello snobismo. Ci pare anzi una felice sintesi formale che non poco deve alle miste esperienze figurative del suo autore.  Certo la macchina da presa è ossessiva nella sua indagine sui corpi (pochissimi i campi lunghi), i dettagli sono cosi dilatati da non significare più l’insieme e anche il racconto (che pur esiste ed ha una forza di denuncia dirompente) è ampiamente subordinato all’apparente ondivaghezza della casualità. Poiché non esiste uno svolgimento drammaturgico coerente ma un accumulo di immagini che paiono comprimere il racconto che alla fine risulta invece chiarissimo nella denuncia dell’atroce stupidità umana. Qui incarnata da non troppo lontani episodi di razzismo che hanno preso di mira alcuni rom, uccidendone in raid notturni gli interi nuclei familiari.

 

Se non ci fosse un incipit inequivocabile che appunto questo ci spiega, guarderemmo le azioni quotidiane del piccolo universo emarginato composto da una donna, un vecchio e due bambini, come lo svolgersi casuale e un po’ miserevole di gesti di un’umanità che sopravvive come sa (e come può): la madre si  ammazza di fatica, la figlia cerca di mantenere dignità e qualche affetto, il ragazzo si crea un mondo di piccoli segreti, il nonno vegeta, in attesa del pasto serale. Questa sopravvivenza aspetta il riscatto della chiamata in Canada dove la vita, là sì, può cominciare. Basta aspettare, ancora un poco, che il padre già emigrato abbia compiuto le necessarie pratiche di ricongiungimento. La speranza porta avanti i giorni. Finché una notte tutto si disintegra, nel raid assassino dell’insensato razzismo. Perché questi e non altri? Perché ora? Ma soprattutto: perché? Non ci sono risposte e tutto termina nel freddo rito della vestizione all’obitorio punto culminante di un destino non giudicato ma, desolatamente, guardato.


Just the Wind
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