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Fantasy o non fantasy?

di Elisa Uffreduzzi
  Hugo Cabret
Data di pubblicazione su web 10/02/2012  

Tratto dalla grafic novel di Brian Selznick (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret), il film racconta di un piccolo e bene educato orfano, Hugo Cabret (Asa Butterfield), che abita negli appartamenti dimenticati della stazione di Montparnasse, dove, all’insaputa di tutti, si occupa del grande orologio che la sovrasta, proseguendo così nel mestiere di tradizione familiare. Perseguitato dallo zelante capostazione (Sacha Baron Cohen) e dal suo fedele e agguerrito segugio, Hugo trascorre le giornate tra orologi e piccoli furti. Nel suo angusto rifugio nasconde in gran segreto un automa rotto, che – convinto che custodisca un ultimo messaggio del padre (Jude Law) – tenta disperatamente di riparare con le preziose istruzioni registrate su di un taccuino che questi gli ha lasciato. Sullo sfondo della Parigi del 1931, Hugo, come ogni eroe che si rispetti, sa badare a se stesso. Oggetto delle sue astute sottrazioni è soprattutto Papà Georges (Ben Kingsley), anziano e misterioso giocattolaio della stazione, che si rivelerà essere Georges Méliès, padre putativo del cinema fantastico. Colto in flagrante, al ragazzo non resta che vuotare letteralmente il sacco, riversando il contenuto delle sue tasche sul bancone del sinistro negoziante. Così gli viene sottratto il prezioso taccuino e così ha inizio l’avventura del piccolo protagonista, accompagnato nelle sue scorribande da Isabelle (Chloe Moretz), figlia adottiva di Papà Georges che, affascinata dai romanzi d’avventura, non vede l’ora di viverne una tutta sua. Questa, a grandi linee, la trama, che offre a Martin Scorsese l’impagabile pretesto per realizzare un omaggio all’arte del cinema e alla sua funzione di “fabbrica dei sogni”. Il regista, alla veneranda età di settant’anni, si cimenta nel 3D, realizzando un film per ragazzi godibilissimo anche da un pubblico adulto, specialmente se cinéphile.




Sintomaticamente due film “figli” della New Hollywood e distribuiti quasi in contemporanea, scelgono come location per le loro rêverie, una città europea, Parigi e un periodo storico ben preciso: gli anni Venti Midnight in Paris (Woody Allen, 2011) e il 1931 – con una sfasatura temporale minima –  il film di Scorsese. Segno questo, che un’epoca di contaminazioni culturali e rivoluzioni tecniche (come questa del digital 3D), avverte con forza l’urgenza di un confronto con l’età d’oro dell’Arte moderna europea e il fermento creativo che ne fu caratteristico.

Dall’inizio alla fine Hugo Cabret strega lo spettatore proprio con l’irresistibile fascino dell’ambientazione, dovuta sia alle magistrali scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, che al sapiente uso del 3D, il cui impiego, unitamente alla cupa fotografia di Robert Richardson, catapulta lo spettatore in affascinanti atmosfere alla Oliver Twist (non a caso il riferimento a Dickens si fa esplicito nella citazione del suo David Copperfield). Scorsese gioca con la macchina da presa e le possibilità del digitale fin dalla prima inquadratura, in cui gli ingranaggi di un marchingegno (un orologio, una prefigurazione dell’automa?) si trasformano nel panorama notturno del centro di Parigi mediante un’impercettibile dissolvenza incrociata; poi è giorno e la camera si lancia in travelling impossibili (in cui si ravvisa l’impiego della louma) lungo i binari della stazione di Montparnasse, quindi prosegue inarrestabile e veloce, salendo verso l’orologio ciclopico della stazione e gli occhi azzurri di Hugo, che si affacciano timidamente dal numero cinque.

Scorsese sembra aver compreso a pieno le possibilità offerte dal 3D, che sfrutta a trecentosessanta gradi, dalle sterminate vedute postmeridiane di Parigi e gli effetti in Digital Capture, ai funambolici movimenti di macchina. Le opportunità che offre la tridimensionalità vengono vagliate sia per enfatizzare la profondità di campo, che per dare risalto alla figura in avampiano, rispetto allo sfondo fuori fuoco. Rivedere i “viaggi impossibili” di Méliès in 3D è un’esperienza indimenticabile. Qui il regista procede in una duplice direzione: da un lato mostra Kingsley/Méliès mentre gira i suoi film, offrendoci la possibilità di vedere l’illusionista al lavoro, tra cartonati e lune di cartapesta, evidenziati dall’effetto “pop-up” (alludiamo qui al particolare genere di libri per l’infanzia) tipico del 3D; dall’altro, la regia ci permette di vedere anche i filmati originali del pioniere del cinema francese arricchiti della terza dimensione, restituendoci in un attimo un po’ dello stupore del pubblico di quel primo cinema. In un film dichiaratamente dedicato alla Storia della “settima arte”, non si contano le citazioni cinematografiche: sotto forma di locandine, pellicole originali proiettate in campo e personaggi, dallo stesso Méliès al fantomatico storico René Tabard, il cui nome è un chiaro riferimento a Zéro de Conduite (Jean Vigo, 1933). L’intera opera si connota così dei conseguenti accenti metacinematografici e si profila come una riflessione sul cinema, la sua storia e le sue possibilità linguistiche, indagando sulla specificità del mezzo, di ieri e di oggi.

Innumerevoli anche le citazioni letterarie, dal già menzionato Dickens ai romanzi di Jules Verne, personaggi come Robin Hood, Jean Valjean, ecc.




Merita di essere ricordata la sequenza onirica in cui Hugo “sogna di sognare”: attraverso la mise en abîme dell’incubo, lo vediamo dapprima rischiare di essere travolto dal treno, poi trasformarsi nel suo automa. Per la prima parte del sogno, Scorsese ricrea sul set il tristemente celebre incidente ferroviario avvenuto nel 1895, proprio nella stazione di Montparnasse, ma così facendo rievoca sensibilmente anche L'Arrivo del treno alla stazione della Ciotat dei fratelli Lumière (1896), o meglio richiama le sensazioni che il pubblico di quelle prime proiezioni dovette provare: il terrore di essere travolti dal treno che sembrava uscire dalla Ciotat, per piombare dallo schermo nella sala. Nella seconda parte del sogno invece, Hugo, grazie alle meraviglie del digitale si trasfigura a poco a poco nel suo automa, ricordando così il mecha di A.I. - Intelligenza artificiale (Steven Spielberg, 2001), con un effetto che stupisce, incanta e inquieta lo spettatore di oggi. Attraverso una sequenza metalinguistica esemplare Scorsese mette a confronto le “attrazioni” che sbalordivano gli spettatori di ieri e quelle che sorprendono il pubblico di oggi.

Il cast affianca a nomi più noti come quello di Ben Kingsley (perfetto Méliès), Jude Law (interprete anche del sopra citato A.I. - Intelligenza artificiale) e Christopher Lee (nei panni di Monsieur Labisse, l’austero ma gentile bibliotecario), quelli di altrettanto bravi comprimari, tutti convincenti, a partire dalla giovane Chloe Moretz. La menzione speciale va senz’altro ad Asa Butterfield, già noto al grande pubblico per il ruolo di Bruno, ne Il bambino con il pigiama a righe (Mark Herman, 2008).

Quel che sorprende di più, tralasciando i trucchi, è che a pensarci bene nel film si allude alla magia e al fantastico, senza mai sprofondarvi veramente, ma rimanendo sempre sulla soglia del reale. Hugo Cabret è un fantasy e non lo è: niente fate, maghi, streghe e tappeti volanti, solo un bambino, un illusionista, un robot d’altri tempi e qualche scenografia di cartapesta, retaggio del passato che ammalia ancora oggi.   




Hugo Cabret
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