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Il muto secondo Hazanavicius

di Elisa Uffreduzzi
  The Artist
Data di pubblicazione su web 04/01/2012  

L’allegro suono dello xilofono che troneggia sul resto dell’orchestra traduce il chiasso della folla che si accalca all’entrata di una sala cinematografica, in attesa del divo di turno. Poi un’ammiratrice scivola involontariamente oltre la barriera dei poliziotti e finisce proprio addosso al suo mito! La musica restituisce quindi l’imbarazzo generale sfumando fino al silenzio, a sua volta rotto da un’ampia risata dell’attore, del cui fragore fa le veci il divertente suono dello xilofono che torna a picchiettare. Con questa scena, brillante per il peculiare uso della musica, si apre The Artist.

La trama ridotta ai minimi termini racconta la parabola discendente della carriera di un attore hollywoodiano del cinema muto, parallelamente all’ascesa di una giovane attrice, il tutto sullo sfondo del passaggio del cinema al sonoro, cominciando dal 1927. Le vite dei due artisti s’intrecceranno nel corso della narrazione, dando luogo a scontate implicazioni amorose.




Il plot ricorda immediatamente film come È nata una stella (A Star Is Born, 1937) di William A. Wellman, per il riferimento alla star del cinema in ascesa e Cantando sotto la pioggia (Singin' in the Rain, 1952) di Stanley Donen e Gene Kelly, per il tema del passaggio al sonoro. La trama non brilla dunque per originalità, ma non si tratta di una pecca. Michel Hazanavicius scegliendo di rispolverare a suo modo i fasti del cinema muto hollywoodiano degli anni ‘20, fa un’operazione dalla natura filologica intrinseca, dichiara cioè prima ancora che i titoli di testa inizino a scorrere che il suo intento è rievocare un ben preciso contesto, perciò la linearità della trama – certo un po’ naif per lo spettatore del 2011 – è perfettamente coerente con un’impresa di questo tipo. Sta al pubblico capirlo e interpretare di conseguenza. Hazanavicius recupera in realtà solo in parte gli stilemi della stagione d’oro del muto hollywoodiano (si pensi a  Mack Sennett, Charlie Chaplin e Buster Keaton in particolare): la tecnica di ripresa ne ripercorre manierismi e cliché (il bianco e nero totale, l’uso ricorrente di mascherini e iridi, la recitazione un po’ teatrale ed eccessiva, la presenza insistita del vento nel profilmico, l’uso – per la verità non così parsimonioso – delle didascalie, ecc.), ma il regista dosa intelligentemente i tratti vintage, rifuggendo da facili quanto fastidiosi espedienti arcaicizzanti (ad esempio la simulazione dello scorrimento di una vecchia pellicola mediante fastidiose righe verticali e l’andamento “a scatti”). Inoltre, pur recuperando certi modi del cinema d’antan, offre graziose trovate che ravvivano il testo filmico attualizzandolo. Un primo esempio ne è la scena in cui il protagonista George Valentin (Jean Dujardin), sensibilmente preoccupato per la sua carriera, messa a repentaglio dalla sonorizzazione del cinema,  sogna di essere l’unico a rimanere privo di voce in un mondo completamente “sonoro”: all’interno della parentesi onirica George posa un bicchiere sul tavolo e il pubblico in sala ne avverte il rumore insieme a lui; poi il cane abbia e infine una piuma cade emettendo un boato assordante, tanto da svegliare il nostro artista in declino. Con questo piccolo espediente Hazanavicius gioca con le possibilità dell’audio cinematografico divertendo e al tempo stesso regalando allo spettatore la possibilità di assaporare il suono come “nuovo”, restituendogli così un po’ di quello stupore che devono aver provato coloro che nel 1927 assistettero alle prime proiezioni de Il cantante jazz (The Jazz Singer, considerato il primo film sonoro) di Alan Crosland.

Un’altra scena che si fa notare nel corso del film è quella al limite con l’arte del mimo, in cui l’aspirante attrice Peppy Miller (Bérénice Bejo), introdottasi nel camerino di George, “flirta” con la giacca del suo beniamino: una trovata semplice quanto divertente, che per l’uso dell’oggetto di scena in guisa di personaggio/marionetta, ricorda molto la scena in cui Gene Kelly ballava con l’ombrello in Singing in the rain o ancor più quella in cui Fred Astaire danzava con l’attaccapanni in Matrimonio reale (Royal Wedding, 1951) di Stanley Donen. Il richiamo al Tip-tap è evidente e ricorrente nel film, a partire dalla scena in cui i due protagonisti, separati da un pannello, accennano alcuni passi di danza eseguendoli a canone sul set del primo film che girano insieme, sino al finale in cui Peppy trova nella tap dance la soluzione per “riciclare” George nel nuovo cinema e insieme salvare il loro amore. Oltre all’impiego delle didascalie tipiche del cinema muto, nel film ne compaiono anche alcune implicite, sottoforma dei titoli dei film in programmazione nei cinema che si scorgono sullo sfondo dell’inquadratura, non a caso perfettamente a fuoco: così mentre George ormai disoccupato e alcolizzato erra per le strade, una locandina annuncia «The lonely star», mentre poco dopo un’analoga insegna chiarisce il ruolo benefico di Peppy, recitando «L’angelo custode».




Jean Dujardin e Bérénice Bejo interpretano magnificamente i protagonisti del film, calandosi perfettamente nella recitazione manierata del muto hollywoodiano e calcando qua e là volutamente la mano: in questo modo arricchiscono il film di un delicato humour che alleggerisce i toni dell’operazione filologica alla quale prendono parte. Il cast in generale è ben calibrato, a partire dalla scelta del volto “giusto” per ciascun personaggio, il che non è poco per un’opera che deve puntare tutto sulla mimica, in mancanza dell’espressione verbale. Si pensi al ruolo di Clifton, il maggiordomo, assegnato al caratterista James Cromwell, o a quello del produttore americano Al Zimmer affidato a John Goodman: entrambi incarnano perfettamente la raffigurazione dei rispettivi personaggi nell’immaginario comune. Merita una menzione anche l’interprete a quattro zampe del fedele cagnolino di George Valentin, che intelligentemente corre alla ricerca di soccorsi per il padrone in fin di vita, ricordando così allo spettatore moderno illustri predecessori come Rin Tin Tin e Lassie. Hazanavicius, abitué del cinema nostalgico, esce vincente da questa nuova sfida perché consapevolmente “fa il verso a” un certo tipo di cinema, invece di profondersi nell’utopistico progetto di rispolverare i fasti del muto fornendone una mera e pretenziosa scopiazzatura. 



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