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Il teatrino privato di Giovanna (nel Teatro del Carretto)

di Anna Barsotti
  Giovanna al rogo (Foto di Guido Mencari)
Data di pubblicazione su web 14/12/2011  
                                 

Il teatrino privato di Giovanna. Una bambina forse non troppo cresciuta, folgorata nel cruciale passaggio dell’adolescenza da voci-luci di cui non si continua a sapere (anche dopo lo spettacolo) la provenienza. Voci ambigue, di cui non si sente il suono; se ne sente soltanto l’eco nella doppia sequenza delle risposte registrate in chiaro alle domande insidiose dell’Inquisitore, e dei lacerti colti e ripetuti in scuro dalla phonè rauca, da ragazzo, della protagonista.

 

Tutto ciò che avviene e vediamo (la componente visiva è, come al solito, fondamentale nelle messinscene del Carretto) fa parte del teatrino privato di Giovanna. Non a caso, l’incipit e l’explicit si corrispondono; solo che nella chiosa finale manca, sintomaticamente, sulla sinistra del palco, la figura e il corpo, all’inizio quasi in posizione fetale, della Pulzella d’Orleans.

 


Foto di Guido Mencari

 
Il dispositivo scenico richiama quello di Pinocchio, meta teatrale gioco onirico d’un burattino che, divenuto bambino per bene, perde la capacità di vivere recitando. Un’arena-prigione limitata a semicerchio da alte pareti lignee color fango, in cui s’aprono fessure longitudinali o quadrate, di vario segno o funzione: ripostigli per i (pochi) oggetti utili eppure decorativi, fonti di luce-spia o che servono a inquadrare, diversamente, l’intero spazio o una particolare prospettiva che dia risalto (come in un primo piano chiaroscurale) a una cosa o a un gesto specialmente di Giovanna. Effetti anche di proiezione d’ombre sulle pareti palizzate, ad ogni modo costruite con due simmetriche griglie a destra e a sinistra del fondo ricurvo che s’accenderanno a vicenda. Un pietrisco come pedana, opaco ma anch’esso funzionale a baluginare quando occorre.

 

In questa arena-prigione (che talvolta, ancora come in Pinocchio, diventa pista circense) s’anima appunto il teatrino privato di Giovanna; per scarti ambigui con rari riferimenti alla realtà. È un teatrino per bambini un po’ perversi, attori d’una fiaba crudele (conservando la primitiva fonte d’ispirazione del Teatro del Carretto) ma anche grottesca, naïf, dove i balocchi (teste mozze incoronate di spine o di stagnola, l’angioletto aureolato di luci) s’incarnano in corpi palestrati, il carceriere in veste di San Michele, sempre al di là della verosimiglianza.

 

Le fonti di luce: 6 o più riflettori a vista in alto, oltre a quelli nascosti dietro le feritoie. Fantasmagoria di colori cupi, anche, che crea atmosfere: fredda o calda, rossastra.

 


Foto di Guido Mencari

 
Nell’incipit, s’è detto, Giovanna è accucciata sulla sinistra, i tre nerboruti carcerieri inglesi, dislocati uno sulla destra, ad ascoltare le voci d’una radio che trasmette un’appassionante partita di calcio, gli altri due sul fondo, uno in piedi a farsi la barba davanti a un riflettore-specchio con un coltello che brandirà quando risuona l’odiato gol della squadra avversaria, animando soltanto il trio di disappunto. Dalla stessa radio di questo quadro atemporale (anacronistico e fiabesco) usciranno senza soluzioni di continuità le voci dell’interrogatorio dell’Inquisitore a Giovanna, con una chiarezza asettica che, come accennato, acquista forza recitativa (ma non per ciò, anzi proprio per ciò, realistica) quando la ragazza androgina ne ripete a stralci qualche frase, con una selezione mirata, e talvolta interagendo con l’altra sua voce e quella della Chiesa inquisitrice.

 

Si tratta d’un filo conduttore – il nome e la nascita, i segni e le Voci (con la maiuscola), l’obbedienza al loro disegno e la devozione al Re, l’apparizione del guerresco Arcangelo Michele, baciato con il sensuale trasporto delle mistiche, la violenza della guerra santa, la rivendicazione degli abiti maschili, la condanna al patibolo e al rogo per interposta persona – slegato da azioni forti e suggestive, in cui prevale l’aspetto polisemantico della materia antropomorfa e oggettuale. La corda, per esempio, calata dall’alto con un cappio in fondo suggerisce l’immagine dell’impiccata per un polso, una posa caravaggesca anche per l’impiego della luce; poi si trasforma nella fune che fa risuonare le campane, ma rinfilato il polso nel cappio quasi sospende la figura di Giovanna (perno immobile centrale) attorniata dal girotondo dei carcerieri-autoflagellanti con le magliette trasformate in fruste. Di fatto, il costume di scena della protagonista non si differenzia molto da quelli dei suoi carcerieri; più chiaro, con il corsetto che le lascia scoperta la vita e (poco) la pancia, rassomiglia certe divise giovanili attuali. Le manca la nudità del torso che invece consente ai tre di offrire ai giochi di luce una scultorea prestanza virile. E gruppi scultorei, ma di fonte pittorica grazie a chiaroscurità (appunto) caravaggesche, si formano frequentemente nell’azione, contravvenendo in ciò alla prospettiva fiabesca originaria, dove gli attori animavano pupazzi come specie di artigianali supermarionette; o integrandola con l’altra che nella storia della compagnia, della sua regista (Maria Grazia Cipriani) e del suo scenografo (Graziano Gregori), coadiuvati (dal 1988) dal sound designer Hubert Westkemper, mira piuttosto ad esaltare il corpo attorico antropomorfo, a partire dall’Odissea (2002) per arrivare al Pinocchio (2006) e all’Amleto (2010).

 

A quest’ultimo spettacolo s’accomuna Giovanna al rogo per la centralità di un attore che sogna la propria recita; spingendosi anche più in là, perché la stessa Ofelia/Gertrude (Elsa Bossi) qui veramente è l’unica individualizzabile, seppure enigmatica, i carcerieri (innominati) formando un coro inferico in cui, però, nel sogno uno dei tre (quasi indistintamente per l’effetto) si erge inaspettatamente, nei momenti di maggiore persecuzione, a suo difensore.

 


Foto di Guido Mencari

 
A ben guardare, dal punto di vista coreografico, il campo semantico dell’attrice si colloca almeno all’inizio sulla sinistra, forse perché le Voci che ne hanno ispirato l’azione venivano «da destra, dalla parte della Chiesa»; si pone sovente anche al centro, come quand’è irradiata dal riflettore-lampadario quadrangolare nella mimesi agita e replicante dell’interrogatorio; ma passa il limite spostandosi sulla destra quando schiaffeggia il beffardo carceriere che con in capo una piuma rossa (fra le poche note di colore acceso) le canta provocatoriamente Lilì Marlene. Da qui la scena di violenza guerresca della Pulzella che con colpi secchi e sordi e gesti iconografici atterra i nemici per tutto lo spazio della scena; violenza contraddetta dalle parole (accorate e confuse) della stessa Giovanna, che utilizzerà il secchio sulla sinistra per lavarsi le mani. Un guizzo di realtà subito sublimato dal sogno di se stessa a cavallo (d’un magnifico attore) sulla destra, indossata la corazza, e brandendo la spada in difesa del suo ridicolo Re, mentre pali miranti contro di lei spuntano dalle feritoie delle pareti. Dopo di che, due momenti forti sono da segnalare: la già citata apparizione dell’Arcangelo Michele, quasi un doppio grottesco della vergine guerriera, ma che la solleva in un’immagine animata sacrale, ed esplode in piume raccolte e accarezzate dolentemente dalla giovane (un altro breve risveglio); la culminante apparizione del fantoccio della Madonna, alla fine, dal fondo che s’apre facendola avanzare nella luce e poi retrocedere nel buio della parete richiusa. Non resta, nel teatrino privato di Giovanna, che seguire quel simulacro con esaltata abnegazione (che ne cancella il dolore), però al posto della statua, con tutte le caratteristiche della effige da processione paesana, subentra la doppia fila di riflettori accecanti che ingoiano la figura umana della protagonista, prima del buio totale. Quindi la chiosa con i tre carcerieri ritornati in scena ad attendere il teatro del mondo…

 

Un riferimento al polilinguismo verbale: l’inglese sbracato degli stessi custodi, che talvolta ripetono le battute in zoppo italiano, ma anche quello assunto improvvisamente e in modo imprevisto dalla pulzella nel dialogo agito con l’Arcangelo, impersonato dal carceriere-attore che lo canta, trascinandola recalcitrante ma affascinata sulle note-parole di Joan of Arc di Leonard Cohen.  Mescolanza assurda di ruoli e di funzioni che conferma l’onirica meta teatralità dello spettacolo; dove forse persino l’assenza di naturalistica sofferenza nella mimica dell’attrice protagonista concorre a togliere al personaggio ogni alone di vittima sacrificale, riconducendola a sublimato pupazzo d’un proprio teatrino mentale.

 

Giovanna al rogo
cast cast & credits
 



 
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