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Le temps des miracles

di Elisa Uffreduzzi
  Miracolo a Le Havre
Data di pubblicazione su web 29/11/2011  

Due anacronistici sciuscià in piedi, di profilo, fermi alla stazione di Le Havre, in attesa del prossimo cliente: così si apre il divertente e surreale apologo di Aki Kaurismäki.

È la storia di Marcel Marx (André Wilms), lustrascarpe di professione, che trascorre una parca e serena esistenza con la moglie Arletty (Kati Outinen, attrice-feticcio del regista) e il cane Laika. Il suo universo si esaurisce tra il bar del quartiere, il negozio del pane di Yvette  (Evelyne Didi), il fruttivendolo, il porto e la stazione. Prima un omicidio che si consuma davanti ai suoi occhi, poi l’improvviso cancro della moglie e l’incontro con Idrissa (Blondin Miguel), il piccolo emigrante africano, sconvolgono l’ordine della sua vita. Per fortuna c’è un intero quartiere a sostenerlo.

Un’indescrivibile atmosfera retró avvolge l’intero racconto e si rivela nelle scelte cromatiche della  fotografia di Timo Salminen. Ambientazioni, arredi, costumi, oggetti: tutto rimanda in modo anacronistico a un imprecisato passato, visivamente collocabile intorno agli anni settanta. Solo pochi dissimulati elementi (un cellulare e un telegiornale sullo smantellamento della “jungle” di Calais, avvenuto nel settembre del 2009), collocano gli eventi descritti nella contemporaneità. Una scelta che conferisce al film un sapore originale, a metà tra il polar e il fumetto alla Hergé. Il commissario di polizia Monet (Jean-Pierre Darroussin) rispecchia infatti i canoni del genere poliziesco francese,  mettendoli garbatamente alla berlina:  avvolto nel suo impermeabile scuro, con baffetti e cappello da manuale, rivela fin dall’inizio le sue nobili intenzioni, eliminando così il chiaroscuro psicologico che il ruolo richiederebbe. D’altro canto il protagonista Marcel Marx sembra preso in prestito da un episodio de Le avventure di Tintin.

 


 



 

 

Del resto montaggio e stile di regia presentano numerose assonanze con la tecnica del fumetto: le inquadrature, spesso tagliate di netto, si succedono per giustapposizione facendo percepire le cesure, mentre gli interpreti dilatano il gesto prolungandone la durata. Spesso rimangono immobili, come in attesa della fine dell’inquadratura, per conferirle i toni della vignetta, con la caratteristica immobilità delle espressioni. Kaurismäki fa un uso insistito dei campi vuoti: spesso la macchina da presa rimane fissa sul totale, anche dopo che i personaggi sono usciti dal quadro o prima che vi entrino: come nei fumetti,  le scene d’ambientazione si alternano a quelle d’azione per consentire al lettore di collocare la storia. Analogamente i ruoli ben definiti, la recitazione vagamente straniata e i personaggi caricaturali (come il cantante rock in pensione Little Bob e il “bestiario umano” del bar), richiamano alla mente i modi della bande dessinée e del fotoromanzo:  racconti per immagini, in cui  negli attimi che si perdono tra un’illustrazione e l’altra, sfuma la verosimiglianza del racconto e quindi anche la suspense che ne deriverebbe. Perché se un giallo non è credibile, per forza di cose non genera neanche gli effetti del caso. Kaurismäki gioca con le tante e varie forme narrative delle arti visive, finendo con l’apporvi il proprio marchio di qualità: per l’impercettibile presenza nel cast di Jean-Pierre Léaud nel ruolo dell’informatore della polizia, con il retroterra cinéphile che ne consegue, il film si apparenta ai delicati omaggi già resi all’attore di Truffaut in Ho affittato un killer (1990) e Vita da bohème (1992).

 


 



 

 

Le tematiche affrontate sarebbero tutt’altro che lievi (criminalità organizzata, immigrazione clandestina, cancro), ma grazie ai consueti toni fiabeschi la tragedia si stempera nella levità del tocco registico. L’autore realizza così una favola per adulti che diverte e fa riflettere, riuscendo a scongiurare il pericolo della retorica attraverso i modi scarni del racconto e aderendo a quella maniera civettuola e giocosa, caratteristica francese – alla Jean-Pierre Jeunet, per intendersi – di raccontare una storia come fosse una filastrocca per bambini.

Il ciliegio in fiore sul quale si chiude il film sembra affermare che la felicità si nasconde dietro la più logorante routine: basta saper guardare. Senonché il nome del protagonista (Marcel Marx) e quello della cagnolina (Laika, come il cane che nel 1957 venne lanciato nello spazio) suggeriscono che il ciliegio mostrato sia piuttosto quello cantato dalla celebre canzone Le temps des cerises, simbolo della rivolta popolare francese (la Comune di Parigi del 1871). Tutti elementi che, senza voler forzare il testo, tradiscono la profonda adesione del regista alla cultura russa, come dimostrano i precedenti film Delitto e castigo (1983) e Leningrad Cowboys (1989). La solidarietà popolare può generare la Comune di Parigi oppure, più semplicemente, farsi protagonista di una piccola, ordinaria storia di fratellanza.


 

Miracolo a Le Havre
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