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Un film per Pina Bausch

di Elisa Uffreduzzi
  Pina di Wim Wenders
Data di pubblicazione su web 08/11/2011  

«Capita che vuoi parlare di qualcosa e che arrivi molto vicino a quello che vuoi dire. Ma capisci anche che è così importante che ti sembra stupido persino mostrarlo. [...] Ogni volta è come se ci fosse un grande conflitto tra quello che vuoi rendere chiaro e quello dietro a cui vuoi nasconderti [...]». In queste note parole della coreografa e danzatrice tedesca Pina Bausch, sta già tutto il suo Tanztheater: tra mimo, danza, teatro drammatico e psicoanalisi di gruppo sui generis, la sua arte affidata al corpo era fatta di un’oscillazione continua tra espressione e sottrazione. Ai danzatori della sua compagnia, a Wuppertal, era solita porre delle domande per stimolarne la creatività e spesso le risposte diventavano il germe di una nuova coreografia. Analogamente il regista Wim Wenders conduce il suo film-documentario sulla Bausch: un progetto intrapreso con la coreografa e amica, poi abbandonato alla morte di quest’ultima (2009) e infine ripreso e trasformato in un omaggio all’artista e alla donna. Ne emerge così un affettuoso ritratto, risultante dalle video-interviste dei membri della compagnia, dai veterani agli allievi più giovani; ma anche dagli inserti di immagini-documento della coreografa al lavoro e dai brani di danza filmati sul palcoscenico o nella cornice urbana di Wuppertal.

 


 



 

 

Lungi dal mero teatro filmato, la regia di Wenders esalta al meglio le partiture coreografiche, guidando lo sguardo e isolando gesti ed espressioni, esaltandone al massimo la semantica intrinseca. La scelta del 3D è senz’altro calzante per un film che parla di Tanztheater. Nato in Germania negli anni settanta, esso si fonda su una dimensione del gesto interpretativo antinaturalistico, pervenendo così ad una peculiare dimensione narrativa. L’accento è così posto sul rapporto che s’instaura tra significante e significato: dal momento che la personalissima maniera del danzatore di sentire una certa emozione è il fondamento del gesto allegorico, ne consegue l’importanza di trasmettere proprio quel sentire allo spettatore. In questo senso il 3D diventa un valore aggiunto, poiché permette di avvicinare ulteriormente lo spettatore alla scena, portandolo quasi al suo interno, a contatto con i corpi, i gesti e le emozioni che traducono.

3D a parte, la regia di Wenders – che non è nuovo al documentario celebrativo (tra gli altri Buena Vista Social Club, 1999) – si adatta intelligentemente al gesto coreutico, con l’intuito di chi sa capire quando avvicinarsi fino a cogliere il dettaglio di un gesto e quando allontanarsi per ammirare il disegno nel suo complesso, attraverso il totale. La fotografia (Hélène Louvart e Jörg Widmer) segue lo stesso andamento altalenante, tra la penombra degli interni in teatro e la luce abbagliante degli esterni, nel paesaggio urbano o in campagna, in un vagone della funivia come sull’orlo di un precipizio o presso un corso d’acqua; suggerendo così il metodo compositivo della Bausch, che trasponeva le emozioni della vita sul palco.

Tra le coreografie riprese nel film Cafè Müller, Le Sacre Du Printemps, Vollmond e Kontakthof, ma anche omaggi personali dei danzatori della compagnia alla propria insegnante e direttrice, come il gesto di libertà e leggerezza che le dedica un’allieva, salendo su di una sedia fino a farla cadere, mentre emette un sonoro sospiro.

 


 



 

 

Spicca la scelta di Wenders di far parlare ciascuno dei ballerini interrogati nella propria lingua madre: la danza di Pina assume così il valore di koinè, zona franca dell’espressione emotiva, in cui trova voce l’intero spettro cromatico delle passioni umane, dal dolore al desiderio, all’allegria, alla libertà, alla lotta e all’ironia. Quest’ultima evidente in sequenze come quella della donna-robot in funivia, accompagnata dalla colonna sonora ordita da un rumorista o quella in cui un muscoloso ballerino della compagnia fa da “ombra” a una collega, creando così un ibrido bodybuilder volutamente ridicolo. Emerge l’importanza degli elementi naturali per la coreografa, ancora una volta enfatizzati dal 3D: rocce, acqua, terriccio, ecc., che assumono il valore di proficui ostacoli per gli interpreti, stimolati così nella resa espressiva degli stati d’animo.

Merita senz’altro una segnalazione la trascinante colonna sonora del film, ad opera di artisti vari, con brani suggestivi come Pina di Thom Hanreich o Lillies Of The Valley di Jun Miyake.

Se è vero che manca al film una struttura narrativa lineare – come del resto alle rappresentazioni della Bausch – d’altro canto, similmente a quelle, anche Wenders mette in campo una sua peculiare logica del racconto. Così se nei balletti della coreografa tedesca alla consequenzialità cronologica e causale se ne sostituiva un’altra basata sull’associazione di idee ed emozioni e sulla reiterazione autistica del gesto, il film di Wenders sceglie di procedere per giustapposizione di ricordi: aneddoti raccolti in maniera apparentemente casuale, racchiusi in una struttura circolare. Il film, si apre e chiude infatti sulle stesse immagini metalinguistiche di un palcoscenico teatrale in penombra, davanti al quale riusciamo a vedere anche le prime file di posti per gli spettatori. Poi nella seconda scena del film (la prima è un quadro urbano di Wuppertal) su quello stesso palco una ballerina mima nell’alfabeto per sordomuti le stesse parole che declama: una breve filastrocca sul ciclico avvicendarsi delle stagioni che torna come un mantra, nel corso del film, a ricordare come in fondo la morte faccia parte della vita e insieme a realizzare ancora una volta quel concetto di reiterazione ossessiva tanto amato dalla Bausch. Laddove la ripetizione aveva una funzione catartica, in una sorta di terapia di gruppo, qui assume il ruolo di necessaria e amorevole elaborazione del lutto.

 

Pina di Wim Wenders
cast cast & credits
 






 
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