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Libertino e ipocrita dei giorni nostri

di Gianni Poli
  Don Giovanni (Foto Bepi Caroli)
Data di pubblicazione su web 17/10/2011  

 

Impresa impegnativa, quella della «giovane» Compagnia Gank, sorta e cresciuta nell’ambito del Teatro Stabile di Genova, che ne co-produce lo spettacolo: Don Giovanni è prova rischiosa al raffronto, inevitabile e fecondo, con l’edizione che lo stesso Stabile rappresentò nel 2000 (regia di Marco Sciaccaluga; con Gabriele Lavia, Don Giovanni e Eros Pagni, Sganarello). Il regista Antonio Zavatteri si domanda: «Semplice anticonformista, Don Giovanni, o (addirittura) un eroe del pensiero? Non comprendiamo totalmente i suoi moventi, ma non cerchiamo di dare una risposta». E Filippo Dini, l’interprete principale, osserva: «In Molière, il comico dell’avventura, è rivolto agli avversari; la critica più aspra, tocca all’autorità e al potere, fino a quello supremo». Quanto all’altra polarità di coppia, Sganarello (interpretato da un Alberto Giusta forse più perplesso che dialetticamente incalzante) appare nel pieno compromesso schizofrenico, fra acconsentire e contestare; sgomento e affascinato dalla personalità del padrone.

 

Alberto Giusta e Filippo Dini
(Foto Bepi Caroli)

 

Zavatteri esprime la sua visione sull’opera con una recitazione dal realismo semplice, diretto; con qualche enfasi (o variazione ritmica) e decisa ironia, a segnare paradossi o gags, ma senza caricature, come quando lo schiaffo a Pierotto raggiunge Sganarello (Atto II, sc. 3) o quando le giovani rivali s’abbaruffano nell’illusione delle nozze improbabili. Il protagonismo di Filippo Dini accentua l’ambiguità del suo personaggio: sostiene i momenti da seduttore più con la necessità (naturale, impulsiva) della sua vocazione alla conquista, che col compiacimento per la soddisfazione libidica; già oltre la voluttà, a misurare il successo. Dini è burlador ostentato, irriverente o blasfemo, ma sempre in tensione «metafisica» (quale sedotto e non seduttore, lo interpretò Lavia, nel 2000).

 

Nel suo cinismo, o ateismo inquieto, infonde una fedeltà all’errore, che forse anch’egli ammette come peccato, quello che gli rimprovera Sganarello. Nella parte del libertino (va verso de Sade, avvertiva Sanguineti), questo Don Giovanni ha una gestualità da impostore e voyeur, o volgare donnaiolo insofferente e aggressivo, quando assale Carlotta, sulla panchina, in presenza del fidanzato. Cova però l’ipocrisia (si potrebbe recitare Tartuffe come metamorfosi di Dom Juan, proponeva Antoine Vitez). E nella contestazione delle autorità, e temporale e divina, riassume disprezzo e presunzione abnormi, segno comunque di fragilità; e da quel lato azzarda l’attacco persuasivo il suo servo.

 

Massimo Brizi
(Foto Bepi Caroli)
 

Centrato sulla coppia archetipica e con struttura da commedia classica, lo spettacolo si svolge nell’itinerario a «stazioni» di Don Giovanni, con gli episodi-chiave ben rilevati, dallo sdegno di Elvira, l’incontro con il povero e con il padre, alla visita alla tomba del Commendatore. Il pubblico reagisce puntualmente al sorgere degli equivoci e allo svelamento; o alla sorpresa causata dalle apparizioni prodigiose. Così Alessia Giuliani recita Elvira nei registri del risentimento veemente e della sublimata vendetta; il povero Francesco (un Massimo Brizi versatile in molti ruoli) mostra una condizione d’indigenza fisicamente molto marcata, poiché striscia lacero e nudo verso il benefattore.

 

L’induzione a bestemmiare suona più cruda che non la sfida alla statua del Commendatore, per la figura del quale Alex Sassatelli ricorre a una maschera neutra a tutto volto. Pure rispettoso delle didascalie di Molière, la rappresentazione rinuncia agli effetti clamorosi per l’epilogo, in cui tuoni e fulmini non rimbombano (mentre le mani del giustiziere e della vittima restano serrate), né fiamme scaturiscono dall’inferno. La musica ha in una marcia stridente, cantata e scandita, il suo leit-motiv straniante. Una cura particolare è posta al dispositivo scenografico da Laura Benzi. Fors’anche per le dimensioni compatte della sala all’italiana del Duse, l’azione si estende alla platea, mediante gradinata al proscenio. Funziona allora uno spazio trivalente: il palcoscenico quasi vuoto con sfondo di cielo orageux, incombente all’orizzonte sui vari luoghi canonici e contigui; le tre pareti in tela dipinta e il lampadario, calanti, per il palazzo di Don Giovanni e i corridoi della sala per gli esterni più lontani. Il che conferisce maggiore portata metaforica al viaggio della coppia complementare; mentre la mancanza della quarta parete coinvolge più epicamente il pubblico nel dibattito fra i protagonisti.

 

Massimo Brizi, Alex Sassatelli, Filippo Dini
(Foto Bepi Caroli)

Regista e Compagnia si sono posti il problema della traduzione: scegliendo la versione di Cesare Garboli, hanno riconosciuto le virtù di quella di Sanguineti (originale del 2000), ma hanno inteso evitare una specie di parentesi interpretativa, nel sovrapporsi d’una preoccupazione filologica ulteriore. Certo la ri-creazione sanguinetiana otteneva uno scarto significativo fra la lingua cortigiana e quella rurale, rifiutando la «comodità» dell’uso del dialetto, a favore di «uno stato nascente del gesto verbale [che] acquista senso e rilievo se si distacca da ogni immediatezza mimeticamente dialettale» (In margine a Dom Juan, Programma, Teatro di Genova, 18 ottobre 2000).

 

La messa in scena attuale assume efficacemente il dialetto (marchigiano e ciociaro degli attori, ma senza insistenze folk) per distinguere l’ambito socio-linguistico di Pierotto (un Massimo Brizi dall’ingenuità impetuosa; poi anche un Padre accoratamente esortativo) e di Carlotta (una Mariella Speranza esuberante di grazie naturali e di cattivo gusto alla moda); nonché per l’eloquio di Maturina, una Alessia Giuliani petulante e vanitosa. Infatti le contadine sono i personaggi più attualizzati e caratterizzati, dalla minigonna agli zatteroni e dall’acconciatura al chewing-gum. E l’ambientazione, allusiva a un vago Novecento, ha nella radio accesa nella sala di Don Giovanni l’elemento più anacronistico. Nella durata di due ore e venti minuti (intervallo compreso), i monologhi di Sganarello (Atto I – Sc. 2; Atto III – Sc. 1), di Don Giovanni (stessa scena), di Elvira (Atto I – Sc. 3), appena scorciati, perdono qualche sfumatura e risonanza, ma a vantaggio della scorrevolezza della vicenda. La sfida del materialista radicale alla trascendenza, alla rivelazione e alla fede, si chiude senza risposta alternativa al catastrofico destino. Prevale, ma senza melodramma, il mistero della morte; in uno spettacolo chiaro, accurato, in cui la convinta dedizione degli interpreti dai talenti già maturi, aggiunge smalto e coesione al risultato d’assieme.

 

 

Don Giovanni
cast cast & credits
 


Alex Sassatelli
(Foto Bepi Caroli)


 
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