La carità è materiale fragile e argomento difficile da affrontare, perché sempre a rischio di facili banalità: Ermanno Olmi, classe 1931, regista per il quale i temi della sacralità e della religione, della fede e della morale cristiana, hanno costituito un fil rouge durante tutta la carriera, questo lo sa bene. Ha sfidato il tema in E venne un uomo (1965) e Camminacammina (1982), ne La leggenda del santo bevitore (1988) e in Genesi: La creazione e il diluvio (film per la TV del 1994), fino a Centochiodi (2007) con cui il confronto si fa diretto data la vicinanza cronologica e tematica. Se lì si narrava la vicenda di un professore di filosofia in crisi che, sorta di novello Cristo, si rifugiava in una piccola comunità agreste in cerca di qualcosa in cui credere contro i rituali della cultura accademica e della religione cattolica, ne Il villaggio di cartone la crisi esistenziale, professionale e mistica è quella di un anziano prete (Michael Lonsdale).
La dismissione dalla chiesa in cui ha officiato per tutta una vita, fino ad identificarsi con ledificio in sé prima ancora che con la fede (della quale è simbolo e veicolo), costringe lanziano parroco a ripercorrere le tappe della sua carriera ecclesiastica, mettendo così in discussione la propria vocazione, il celibato dei preti, il rito stesso della messa. «Tu mi parli da un tempo troppo lontano e io non riesco a sentire per te quella pietà che dovrei», dirà a un certo punto guardando il crocifisso sul suo comodino. A riempire di nuovo senso le spoglie mura della chiesa abbandonata e insieme le “parole di vita eterna” del Vangelo e della Bibbia sono i profughi clandestini che si rifugiano nelledificio.
Con loro lanziano parroco riscopre il senso della carità non necessariamente cristiana. Come confessa, ormai stanco e malato, al medico di zona: «Mi sono fatto prete per fare il bene, ma per fare il bene non serve la fede: il bene è più della fede!». Ed ecco che lAdeste fideles acquisisce nuova valenza semantica, così come i numerosi versetti del Vangelo reiteratamente parafrasati dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista, che sceglie un linguaggio volutamente “arcaicizzante” e forbito, teso a conferire valore simbolico alla vicenda narrata, che si vuole dunque esemplare come una parabola dei giorni nostri. «Le religioni non hanno mai salvato il mondo» recitava lepigrafe nella locandina di Centochiodi che si adatta facilmente anche a questa nuova prova, mediante la quale il regista si propone di recuperare un amore universale al di là delle religioni e della Chiesa, intesa come istituzione ormai svuotata dei principi ispiratori. Il tema torna a distanza di qualche anno dallannuncio – ora smentito dai fatti – di astenersi dal lungometraggio di finzione per dedicarsi al documentario in modo esclusivo.
Sorge spontaneo il confronto con Terraferma, il film di Emanuele Crialese che difetta proprio dove Olmi dà prova della sua saggezza di consumato artista: sceglie infatti lafasia, la rarefazione dialogica per tenersi al riparo dallo spettro della retorica. Il villaggio di cartone sembra così tornare alla lezione del cinema muto. In questo senso le rare battute del film funzionano come le antiche didascalie: chiariscono e chiosano laddove si rende indispensabile lintervento verbale. Proprio ai dialoghi sovrabbondanti e carichi di cliché è al contrario imputabile la debolezza del film di Crialese, pure visivamente riuscito. Ne Il villaggio di cartone anche luso della musica di Sofia Gubaidulina ricorda molto da vicino le partiture che accompagnavano i film muti: recupera il valore originario del commento sonoro più vicino al rumore dambiente che alla melodia.
Anche dal punto di vista visivo Olmi ci regala un saggio di stile, pulito e incisivo: il film sceglie come unità di misura di base il primissimo piano e il dettaglio, avvolti nella scarna fotografia documentaristica di cui Olmi è maestro. Del resto su un primissimo piano – quello della bigia e scapigliata testa dellanziano protagonista – si apre il film. Molte inquadrature hanno un tempo di lettura dilatato e unimmobilità che il silenzio esasperato trasforma in tableaux vivants fortemente evocativi, tanto da ricordare la piatta bidimensionalità della pittura sacra medievale.
Altre, fortemente angolate o catturate da posizioni di ripresa anomale, offrono punti di vista inusuali sul reale, enfatizzando il senso delle immagini. Così è per il crocifisso visto dal basso allinizio del film o per la splendida inquadratura in primo piano sul volto di Cristo, poco dopo: la macchina da presa lo scruta, mentre il crocifisso ruota vorticosamente su se stesso, appeso al cavo del mezzo meccanico che lo ha scardinato dallabside della chiesa.
Si noti che nel film sono presenti, ora come inserti diegetizzati, ora mediante una mise en abîme sapientemente camuffata, dei brani documentari: si tratta delle riprese della spiaggia sulla quale sono naufragati i profughi, immagini-verità sulle quali si conclude il film portando in avampiano un relitto ligneo, metonimia della barca naufragata, ma anche seme-simbolo della possibilità, dellapertura verso il futuro. Quasi un commento visivo alle parole dellexcipit: «O cambiamo il senso impresso alla storia o sarà la storia a cambiare noi». Un messaggio di speranza, che suona come un monito, o viceversa.
Dà lustro alla parabola olmiana un cast deccezione, in cui a fianco di Michael Lonsdale, capace di restituire unumanità commovente e sincera alla figura istituzionale di un prete, compaiono altri interpreti di comprovata bravura, quali Rutger Hauer (presente in un cammeo allinizio e alla fine del film) e Alessandro Haber nei panni di un cinico gendarme. Tra i comprimari merita senzaltro una menzione El Hadji Ibrahima Faye, nel ruolo del soccorritore, che interpreta per sottrazione, evitando così il luogo comune del “buon selvaggio” dal quale peraltro non sono esenti altri interpreti: una colpa imputabile prima e più alla struttura allegorica dei personaggi che a un difetto attoriale.
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