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Eternità e manipolabilità dei classici

di Paolo Patrizi
  Lo frate 'nnamorato (Foto Binci)
Data di pubblicazione su web 03/10/2011  

E se, doppiata la boa del primo decennio di attività, il Pergolesi Spontini Festival s’incanalasse sulla direttrice del Rof? Se, insomma, al pari della Gran Vetrina pesarese – che, dopo aver dato un contributo epocale alla rinascita della vocalità rossiniana, ha spostato il proprio baricentro sulle scommesse registiche più che sulle illuminanti personalità canore – pure il festival jesino virasse dai lidi del belcanto a quelli drammaturgici? Il paragone è improprio, perché, nonostante i contributi offerti a Jesi in questi due lustri da alcuni bravi cantanti, a Pergolesi sono mancati un Ramey e un Blake (quanto all’altra faccia della medaglia festivaliera, ossia Spontini, la ricognizione è rimasta troppo circoscritta per parlare di una renaissance più drammaturgica o più musicale): sta di fatto però che la voglia di fare teatro a tutto tondo, prima ancora che teatro d’opera, è molta, a giudicare da ciò che si è visto quest’anno. Il passaggio del testimone dal festival alla stagione lirica, anch’essa inaugurata sotto il segno pergolesiano, sembra confermarlo: nelle due fitte settimane del festival lo spettacolo più fertile è stato una Serva padrona che, nella rielaborazione registica di Henning Brockhaus, ha aperto una prospettiva inedita su questo immarcescibile classico; mentre il sipario della stagione tradizionale si è aperto su un Frate ’nnamorato meno innovativo, ma con una regia di Willy Landin sensibile non tanto alla riproposizione di un mondo ormai perduto (i caratteri della commedia in musica napoletana del diciottesimo secolo), quanto alla sua riproducibilità in periodi storici e contesti comici a noi più vicini.

 

La riscrittura di Brockhaus è tanto più significativa in quanto non modifica il testo: semmai lo amplifica. Partendo dal presupposto – oggettivo – che La serva padrona non nasce come prodotto autonomo (è un «intermezzo in due parti»: duplice siparietto da innestare negli intervalli di un’opera dalle più ampie dimensioni), il regista trasforma questo breve atto unico da squisita parentesi a organismo principale, contenitore di un ulteriore pezzo di teatro posto a mo’ di intermezzo dell’intermezzo. Può sembrare un gioco di scatole cinesi o, più banalmente, un modo di ampliare a dimensioni ragionevoli lo spettacolo (La serva padrona, da sola, non basta a “fare serata”): ma la scelta del microrganismo teatrale da incastonare al suo interno è così spiazzante all’apparenza, e così efficace nella sostanza, da modificare la nostra percezione della drammaturgia di Pergolesi e del suo librettista. Brockhaus, infatti, inserisce tra una parte e l’altra della Serva il Samuel Beckett di Atto senza parole I, e la scelta non è solo irreprensibile da un punto di vista musicale (trattandosi di un testo muto l’interruzione non scombussola il flusso melodico pergolesiano): consente d’imprimere uno spessore particolare al ruolo muto del servo Vespone (a Jesi il bravissimo clown Jean Méningue) facendone anche il personaggio unico dell’afasica pièce beckettiana e, al contempo, ci ricorda come lo svuotamento d’ogni possibilità decisionale, tragedia umana portante nel teatro di Beckett e contrabbandata in chiave di comica muta in Atto senza parole I, sia il dramma che tocca in sorte pure a Uberto nella Serva padrona. E se l’ambientazione circense su cui si alza il sipario può sembrare forzata, in rapporto alla vicenda domestica raccontata da Pergolesi, nel prosieguo la clownerie dell’Atto senza parole rende impeccabile anche questa scelta.


 


Lo frato 'nnamorato. Foto Binci

 

Mentre il tedesco Brockhaus sceglie di raccontare – più che una storia – degli atteggiamenti, l’argentino Landin è interessato soprattutto all’intreccio di Lo frate ’nnamorato, e preferisce dialogare con Pergolesi non attraverso l’assurdo di Beckett, ma il realismo sorridente di Poveri ma belli e Pane, amore e fantasia. Senza curare troppo quel substrato sociale-razionalistico che trapela dietro la sarabanda di macchiette e macchiettoni, e rinunciando pure alla comicità “filologica” da barocco napoletano che era la cifra del Frate ’nnamorato messo in scena da De Simone nell’ormai remoto spettacolo diretto da Muti alla Scala, Landin cerca di trovare un aggiornamento stilistico alla “commedia per musica” vernacolare di Gennarantonio Federico in quella commedia cinematografica del dopoguerra che – esaurita la grande stagione neorealista – si riproponeva un ritratto ameno e gentile della società italiana degli anni Cinquanta. I conti, stavolta, non tornano fino in fondo: se non altro perché il “neorealismo rosa” di quei film mirava a rendere rassicuranti e garbatamente commerciali le conquiste espressive di Rossellini e De Sica, laddove commedie musicali come Lo frate tendevano, dietro la facciata del bozzetto d’ambiente, ad arricchire psicologicamente lo schematismo degli “affetti” del melodramma di quegli anni. Ma il tentativo di cercare parentele e innestare reciproche suggestioni tra differenti famiglie di commedia resta un esercizio interessante, e lo spettacolo è utile a far conoscere al pubblico italiano un regista che, in Argentina, ormai è un primo della classe.
 

Le voci, si diceva, sono meno interessanti: come si fosse innestato un rapporto d’inversa proporzionalità tra l’impulso alla sperimentazione registica e la capacità di raccontare personaggi e situazioni attraverso il canto. Tuttavia il basso Carlo Lepore, nella Serva padrona, conosce bene l’arte del porgere la frase, mentre nel Frate ’nnamorato Filippo Morace è un buffo tanto morbido quanto sapido. Precoci – e dunque tanto più preoccupanti – segni di stanchezza si notano poi nelle giovani Alessandra Marianelli (Serva) e Barbara Di Castri (Frate), comunque ragguardevoli per correttezza e musicalità. Mentre dispiace che Luca Cherici riduca a mera sguaiataggine l’indiavolata vena popolaresca della serva Vannella, e ancor più incresce la comicità grossolana, e l’emissione scompaginata che ne è il corollario, impressa da Nicola Alaimo al suo Marcaniello. Gli altri, tolto qualche buon momento della Cardella di Rosa Bove, non inducono a considerazioni particolari e si adagiano su una medietas tanto volenterosa quanto impersonale. Ma a questo punto si dovrebbe lamentare la latitanza di una “regia vocale” dal podio.

 

Corrado Rovaris, alla guida dei Virtuosi Italiani, ha impresso nella Serva padrona una lettura un po’ compassata: forse per scarsa empatia con la regia di Brockhaus, o forse proprio perché – sposando la causa di una Serva beckettiana – ha mirato a un’algidità di fondo. Non ha però turbato gli equilibri fonici, laddove nel Frate ’nnamorato la dinamica “a strappi” e i volumi debordanti impressi da specialisti come Fabio Biondi (nella triplice veste di direttore, violino e viola d’amore) e il suo ensemble Europa Galante hanno dato minore stabilità: è stato difficile, la sera della “prima”, ascoltare gamme intermedie tra il forte e il piano; l’uso di strumenti antichi (non perfettamente udibili dal palcoscenico) ha suggerito una leggera microfonazione di riporto per i cantanti che, almeno nel primo atto, è apparsa piuttosto metallica e coprente le voci dei solisti; e anche sul piano della concertazione si avvertiva l’assenza di un autentico narratore o, a dirla tutta, di un grande della bacchetta al posto di un grande dell’archetto. Sebbene la filologia negli ultimi vent’anni si sia fatta intimidatoria, non sarà analfabetismo musicale rimpiangere l’orchestra moderna che rendeva vivido e palpitante Lo frate ’nnamorato diretto da Muti. Potrebbe essere questa, oltre alle nuove frontiere registiche, la scommessa per una definitiva Pergolesi renaissance: una filologia dello spirito, più che della lettera, dove gli strumenti antichi sono solo una delle soluzioni possibili.



La serva padrona e Lo frate 'nnamorato di Pergolesi

La serva padrona
cast cast & credits
Lo frate 'nnamorato
cast cast & credits



 
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