Lestate musicale del 2011 resterà nella memoria come verdiano-shakespeariana: se a destra, a Salisburgo, si è udito lo squillo di tromba del Macbeth con la regia di Peter Stein, a sinistra, nella più defilata Lubiana, ha risposto lo squillo di un Otello messo in scena da Eimuntas Nekrošius. Il festival sloveno – pressoché ignorato dalla stampa italiana, ma che da anni rappresenta unirripetibile occasione per far circolare produzioni di alto livello dei teatri dellEuropa nordorientale – si è così assicurato uno spettacolo, nato la scorsa stagione allOpera di Vilnius, che difficilmente i nostri direttori artistici avranno la lungimiranza dimportare, e tuttavia rappresenta un momento-chiave per chiunque sinteressi di musica e teatro: il regista cui dobbiamo il più memorabile Otello di Shakespeare degli ultimi tempi si misura con lanalogo capolavoro verdiano.
Foto di Miha Fras
Come accadde nel Macbeth fiorentino di alcuni anni or sono, Nekrošius arriva a Verdi dopo una lunga frequentazione con la tragedia che ne è alla radice: un approccio che ignora quella lente romantica con cui il compositore filtrò Shakespeare, per imboccare la strada duna lettura visionaria e materica al contempo, che evita la narrazione realistico-espositiva (una rinuncia incompatibile, allapparenza, con la drammaturgia di Verdi) e la sostituisce con una fortissima (questa sì, davvero verdiana) evidenza teatrale. La funzione catartica del teatro, con la sua capacità di trascinarci simultaneamente in una dimensione dosservazione esterna e coinvolgimento diretto, qui spicca già prima che lopera abbia inizio: Jago avanza al proscenio e ritaglia un lembo del sipario ancora chiuso, ricavandone il fatale fazzoletto. Come dire che il motore della tragedia è a sua volta un oggetto – anzi, una reliquia – teatrale. Sul primo accordo orchestrale quello stesso sipario si dischiuderà poi solo per metà del palcoscenico, lasciando scorgere il coro che osserva la nave del protagonista tra i flutti della tempesta, ma precludendo allo spettatore la vista di ciò che il coro vede. Quando si aprirà nella sua interezza, il Moro appare su una piattaforma ovale inclinata, scatola scenica fissa e cangiante dellazione: di volta in volta piedistallo del trionfo di Otello, marciapiede della sua caduta fisica e psichica, letto e ara sacrificale di Desdemona.
È linizio duna messinscena dove ogni immagine è costruita con una potenza plastica inaudita: la sintesi di violenza e dolcezza in cui si sostanzia la tragedia dal protagonista viene riassunta, in unistantanea indimenticabile, dal gesto di Otello nel duetto del primo atto, quando con uno slancio virulento della mano sembrerebbe voler mozzare la testa di Desdemona, salvo farla planare – quella stessa mano – sui capelli della sua sposa, con una delicatezza infinita; a sua volta l«eburnea mano» di Desdemona idealmente si moltiplica, deflagrando nella duplice dimensione di rimpianto amoroso e oggetto di desiderio, attraverso lincessante “recitazione” delle mani dei coristi, chiamate a plasmare le parole, la musica, lo spazio; mentre lottenebramento della ragione che porta alla rissa tra commilitoni viene evocato con un improvviso buio in palcoscenico, dove gli unici guizzi di luce vengono dalle torce elettriche usate da Cassio e Montano per il loro bestiale combattimento.
Foto di Miha Fras
La grande poesia (e laltissimo artigianato) con cui Nekrošius foggia lo spazio teatrale e racconta per immagini, però, non deve far pensare a una regia poco attenta ai singoli personaggi. Basterebbe pensare allinsolita prospettiva, e allinusuale rilievo, dati a Roderigo: una sorta di nano innamorato, inevitabilmente votato alla sconfitta. Ma è soprattutto Desdemona a emergere, riappropriandosi della natura di grande figura femminile con cui Shakespeare laveva concepita, e che Boito e Verdi le avevano in parte sottratto. La scena, potenzialmente un po leziosa, in cui viene accompagnata da un corteggio adorante di bambini e fanciulle viene risolta in una trasfigurazione, con i bimbi che applicano due immense ali bianche alla loro beniamina. Non a caso sarà poi uno stilizzatissimo volo di colombe a contrappuntare luccisione di Desdemona, e quelle stesse ali – chiudendosi a mo di bozzolo, o guscio di conchiglia – ne serberanno il corpo. Prima che si rinserrino per sempre, anche il moribondo Otello vi sinfila: ed è, forse, la più emozionante traduzione visiva dellultimo risuonare del “tema del bacio” che si possa concepire.
Lo spettacolo ha potuto contare su cantanti – tutti appartenenti alla compagnia stabile dellOpera Nazionale Lituana – estremamente compenetrati nella lettura di Nekrošius. Spicca, in sintonia con una regia dove il punto focale è la protagonista femminile, Sandra Janušaitė: una Desdemona dantan, per certi aspetti, di taglia vocale più drammatica che lirica (“pianissimi” e “filati” non sono le sue carte migliori) comera dato ascoltare in certi soprani anteguerra, ma che appunto per questo serve a rammentare limportanza di quelle cantanti – Maria Caniglia da noi, Stella Roman oltreoceano – e a farci riflettere su quali potenzialità espressive avessero le Desdemone sottratte a estenuate liricizzazioni. Al di là dellesercizio di memoria restano poi le qualità canore e interpretative della Janušaitė: da una parte la lunghezza dei fiati, lomogeneità del suono, la compattezza del timbro; dallaltra un fraseggio acceso, intenso e vibrante, ma senza andare mai sopra le righe.
Foto di Miha Fras
Dantan, se vogliamo, è anche il ritratto di Jago che offre Dainius Stumbras – più bieco che cesellato, più malevolo che mellifluo – cui mancano però le attrattive vocali della collega: gli acuti sono fissi o schiacciati, pregiudicando la riuscita del brindisi. Al centro e in basso, invece, lemissione è solida, e permette al canto di oltrepassare senza apparente sforzo i “fortissimi” orchestrali; lottima pronuncia italiana consente poi di proiettare con chiarezza i virtuosismi metrici del testo di Boito; e se la linea vocale tende al truce (non al plateale, comunque) lattore è molto duttile nel dar vita allo Jago concepito da Nekrošius: né finto onesto né vilain, ma giovanilmente tetragono e imperscrutabile. Lanello debole, semmai, è Avgust Amonov: il timbro denso – quasi pressato – e le risonanze scure dei centri (con un simile Otello e un baritono più leggero di Stumbras il tenore sarebbe sembrato Jago) evocano con efficacia lombrosità e la negritudine del personaggio, ma gli acuti sono incertamente intonati o appena ghermiti, e lemissione a tratti slabbrata sottrae nobiltà al canto; mentre, arrivato a Dio! Mi potevi scagliar tutti i mali, le continue indicazioni dinamico-espressive di Verdi vengono ottemperate in modo troppo occasionale per dar luogo a uninterpretazione emozionante.
Insomma tre protagonisti diseguali per valore, ma accomunati da una visione vocale dei personaggi piuttosto tradizionale. Nel solco della tradizione – a cominciare da una certa tendenza ai tempi larghi e spaziosi – si pone anche la lettura musicale di Gintaras Rinkevičius: una direzione senza voli ma di sicuro mestiere, capace di tenere in mano (senza ricorrere a tagli) le redini del monumentale concertato del terzo atto, dove più duna grande bacchetta è incorsa in scivoloni. E nel mestiere rientra pure la valorizzazione dei ruoli minori: ad eccezione di Egidijus Dauskurdis – troppo ingolato per conferire la necessaria autorevolezza allentrata di Lodovico – le parti di fianco sono di buon livello. Audrius Rubežius, come Cassio, ha la fatuità e la brillantezza del “secondo tenore”, più che del tenore comprimario; il Roderigo di Rafailas Karpis non è solo il mostruoso nanerottolo concepito dalla regia, ma un compiuto ritratto vocale; e Arūnas Malikėnas non passa inosservato come Montano. Laima Jonutytė è unEmilia un po in ombra nel quartetto, ma capace di ritagliarsi un bel primo piano nel grande concertato e, nellultimo atto, attrice fenomenale, letteralmente trasformandosi (uno dei colpi di genio della regia di Nekrošius) in uccello impazzito e disperato davanti alla morte di Desdemona-colomba.
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