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L'ombra del disco

di Paolo Patrizi
  Die Frau ohne Schatten
Data di pubblicazione su web 30/08/2011  

Che il teatro sia specchio dell’uomo, e la sua finzione si riveli più vera del Vero, è antica questione della civiltà del palcoscenico, in prosa come in musica; che pure un’opera in disco, se affidata a un direttore di spiccate qualità narrative e cantanti con doti di “attori vocali”, abbia una forte carica di teatralità è agevolmente sostenibile; che un’incisione discografica possa aspirare a trasformarsi in gran teatro del mondo, invece, è un paradosso che ancora non era stato argomentato. Al Festival di Salisburgo ha tentato di farlo – in collaborazione col Dramaturg Thomas Jonigk – il regista Christof Loy, che trasporta agli anni Cinquanta il mondo senza tempo delle favolistiche isole sudorientali della Donna senz’ombra, utilizzando per sfondo dell’azione uno studio discografico in cui si va a incidere l’opera di Strauss e Hofmannsthal: ma teatro (registrato) e vita qui rapidamente si confondono, dando vita a un transfert tra cantanti davanti ai microfoni e relativi ruoli interpretati più pirandelliano che hofmannsthaliano.

  


                                          (Foto di Monika Rittershaus)

 

In questa prospettiva Barak e sua moglie sono due cantanti coniugi anche nella vita, in piena crisi matrimoniale a loro volta; la Nutrice (all’apparenza il personaggio negativo della storia: ma il testo di Hofmannsthal è più ambiguo di quanto non voglia o sappia essere la regia) diventa una matura primadonna in declino, incattivita con i colleghi e con il mondo; l’Imperatore – in fondo lo “Straniero” dell’opera, con tutte le implicazioni che ha questa figura nella cultura tedesca – si suppone essere un tenore-divo venuto da lontano, oltreoceano probabilmente; mentre l’Imperatrice è un giovane soprano in ascesa, che guarda quest’accavallarsi di finzione e realtà come attraverso le lenti di un sogno. Ne scaturisce una dimensione onirica, attraversata da una palpabile vena di misoginia (oltre che alla Nutrice pure al personaggio della Donna la regia nega pietas e sostanza psicologica, racchiudendo il ruolo a una mera dimensione isterica), che vira talvolta verso Strindberg e vieppiù ci allontana dal simbolismo cristiano-estetizzante di Hofmannsthal.

 

La scena dell’apoteosi conclusiva delle coppie ricongiunte trasferisce inopinatamente l’azione dall’asettico studio discografico alla Sofiensäle di Berlino (quanti spettatori non austro-tedeschi l’avranno riconosciuta?), addobbata per un concerto di Natale del giovane soprano. La crisalide è diventata farfalla, la novellina si è trasformata in diva, ma l’impaginazione visiva ha troppo il sapore della scena natalizia di Tutti insieme appassionatamente – un ulteriore gioco citazionistico, essendo il film di Robert Wise ambientato a Salisburgo, all’interno di una regia già infarcita di citazioni – per non apparire disinnescante: in uno spettacolo tutto sul crinale della depauperazione emotiva è proprio l’epilogo a banalizzare in via definitiva la messinscena, e far chiudere in passivo quella tendenza al cerebralismo e allo straniamento che qualche esito interessante l’aveva pur dato, nei primi due atti. Più congrua, almeno in rapporto a tale riscrittura drammaturgica, l’ambientazione anni Cinquanta: per un’opera come Die Frau ohne Schatten, che assunse il valore simbolico di riscatto dell’umanità dopo le macerie della Grande Guerra, lo spostamento al secondo dopoguerra – dove la Germania si trovò fare i conti con un retaggio ben più devastante – aggiorna e, insieme, destabilizza il messaggio di Strauss e Hofmannsthal. 

 


                                          (Foto di Monika Rittershaus)

 

Christian Thielemann, sul podio, non sposa certo la causa di una Frau senza emotività (oltre che senza ombra), ma ha in comune con la regia l’estraneità a quegli aspetti estenuati e decadenti cui si è soliti ricondurre Hofmannsthal, e che caratterizzarono una lettura storica come quella di Karajan. Ultimo grande direttore tedesco di sensibilità prettamente romantica, Thielemann non pare interessato a sottolineare quella dimensione Art Nouveau, sensibile a teosofia ed esotismo, che radica La donna senz’ombra negli anni della sua composizione, e neppure a cogliere certe inquietudini analitiche più pienamente novecentesche: piuttosto – consapevole che un capolavoro ammette predatazioni e postdatazioni stilistiche – sembra volerne fare un’ultima grosse romantische Oper, in ciò forse agganciandola più allo Strauss dei poemi sinfonici che a quello del teatro musicale. Tensione drammatica, incandescenza coloristica, estrema “cantabilità” orchestrale pur all’interno di volumi straripanti sono i muri maestri di questa concertazione, che azzarda e vince la scommessa (quasi mai tentata dalle maggiori bacchette confrontatesi con questa monumentale partitura) di un’esecuzione senza tagli; e il suono ricchissimo e flessuosissimo dei Wiener Philharmoniker completa il quadro.

 

Il cast è nell’insieme valido, ma non omogeneo, trascolorando da picchi di eccellenza a elementi deludenti. Tra i primi spicca la Donna di Evelyn Herlitzius, dall’emissione perfettamente controllata (i bruschi scatti di estensione vengono governati senza che ne scapitino omogeneità del suono ed esattezza dell’intonazione) ma anche di drammaticità divorante sul fronte interpretativo, e capace di ritrarre una “sensualità nella frigidità” che non è un ossimoro, ma un geniale ritratto canoro e teatrale. Pure la Nutrice di Michaela Schuster s’impone per scandaglio interpretativo, dando vita a un’anima oscura non priva di mezze tinte e di contrasti, mentre l’anello debole è l’Imperatore Stephen Gould, peraltro in linea con la media (insoddisfacente) dei tenori eroici wagneriano-straussiani di oggi.  
 


                                          (Foto di Monika Rittershaus)

 

L’Imperatrice di Anna Schwanewilms è efficace nel delineare i momenti estatici e quasi immateriali del personaggio, meno quando si tratta di dar vita e voce alle accensioni più roventi e agli acuti più slanciati. All’opposto, Wolfgang Koch è baritono robusto ma avaro di sfumature: e tuttavia il suo Barak senza ceselli, ricondotto a una dimensione di sana “voce della natura”, è accattivante e funzionale. Più di routine la prova dell’altro baritono Thomas Johannes Mayer, un po’ troppo banalmente declamatorio per incarnare il Messaggero degli spiriti, e di buon livello i comprimari, tra cui spicca la voce agile e luminosa di Rachel Frenkel, che restituisce al canto del Falco il suo doppio valore di entità fatata, ma anche di voce della coscienza. Ottimo come sempre il coro del Festival ed esemplare, per amalgama non meno che per intonazione, quello di voci bianche, che nella Frau ohne Schatten è chiamato a un impegno di primo piano.

 

 

Die Frau ohne Schatten



cast cast & credits



 
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