La civiltà viennese tra lultimo decennio dellOttocento e gli anni Venti del secolo successivo è il collante – e, in definitiva, la protagonista – di un doppio dittico proposto al Festival della Valle dItria: un trascolorare dal tardoromanticismo allespressionismo, e da questo al liberty, che restituisce un poliedro non solo musicale, le cui facce sembrerebbero elidersi a vicenda, ma non sono insensibili al fascino della reciproca contaminazione. Le dichiarazioni di appartenenza, daltronde, sono spesso fuorvianti: Korngold, in Italia, è connotato come lautore morbosamente decadente della Città morta, e qui lo troviamo alle prese con unopera comica in un atto, Lanello di Policrate, fresco ma già maturo – almeno per lalto tasso dironia – lavoro di apprendistato scritto a diciassette anni, allinsegna di unestrema pulizia classico-melodica e senza quelle tentazioni straussiane che, di lì a poco, lo condurranno a una compiaciuta ipertrofia; di Krenek il Festival propone due brevi atti unici della sua stagione espressionista (Il regno segreto e Il dittatore), momento particolarmente fertile nelliter creativo del compositore ceco-viennese ma, appunto, momento soltanto per un musicista di parabola artistica lunghissima, che spaziò dal linguaggio post-romantico al dodecafonico, fu tentato dal serialismo e flirtò con il jazz; e naturalmente sarebbe limitativo circoscrivere Mahler (al Dittatore vengono abbinati i Lieder di Des Knaben Wunderhorn) a una pura dimensione di Art Nouveau musicale.
A conti fatti, il dittico Krenek / Mahler appare un po pretestuoso (le serate che accoppiano opera e Lieder sono a un dipresso dalla forzatura stilistica), e la trascrizione per ensemble da camera effettuata sul Dittatore lascia intuire, più che gustare, larte orchestrale krenekiana, intrigante nella dimensione percussiva e sapiente nel contrappunto. Per contro, nonostante leterogeneità delle drammaturgie, funziona bene lo spettacolo – questa volta con orchestra al completo – che abbina Il regno segreto allAnello di Policrate: la dialettica tra un Korngold in erba, ma già nostalgico di un Eden musicale incontaminato dalle ambiguità tonali, e un Krenek espressionista nella confezione, ma parodisticamente classico nella sostanza, diverte sotto il profilo teatrale e, volendo, offre spunti di riflessione a chi sinteressa di filosofia della musica. Semmai resta il rimpianto per una mancata serata allinsegna dellintera trilogia espressionista di Krenek: come Puccini, anche questo instancabile artigiano – oltre duecentoquaranta composizioni – del “secolo breve” ebbe il suo Trittico (Il regno segreto e Il dittatore furono rappresentate nel 28 accanto a un terzo atto unico satirico-grottesco, La gloria della nazione), ed è un peccato che a Martina Franca si sia persa loccasione per proporlo nella sua integrità.
Una scena da Il regno segreto
Era difficile creare unimpaginazione omogenea transitando da unopera “di conversazione” e allinsegna delle unità aristoteliche come Lanello di Policrate – dove in un pomeriggio cinque personaggi entrano ed escono da un salotto intenerendosi, bisticciando e azzardando schermaglie parafilosofiche – a unopera come Il regno segreto, in cui gli eventi incalzano e lambientazione trascolora da una reggia a una foresta: e la regia di Franco Ripa di Meana, in effetti, si limita da un lato a gestire con tempi impeccabili il viavai di entrate e uscite in Korngold, dallaltro a rendere meno caotico possibile il turbinio delle masse corali e la frenesia psicomotoria dei personaggi di Krenek, senza fare molto per cercare un collegamento di lettura. È stato lo scenografo Tiziano Santi a creare un segno visivo unitario, allinsegna di pochi elementi più evocativi che naturalistici: nel salotto del Policrate file di poltrone da teatro e tappezzeria a strumenti musicali ci proiettano nella dimensione di compositore di successo che arride al protagonista, mentre un trono sbilenco e un tavolo da gioco sottolineano la natura un po cabarettistica della reggia del Regno segreto.
Quanto alle ambientazioni, quella ora moderna ora senza tempo appare ineccepibile per il lavoro di Krenek, a mezza strada tra favola e attualità, Zauberoper dantica memoria (la Regina e le tre dame discendono dritte dritte dal Flauto magico) e nuovo filone della Zeitoper che andava imponendosi negli anni Venti. Semmai può lasciare perplessi lo spostamento del Policrate al periodo della sua composizione (1913-14): il libretto specifica a chiare lettere che «lazione è ambientata in un pomeriggio dautunno del 1797», e i nomi di Haydn e Schiller, intesi come personaggi di attualità, riecheggiano più volte. Tuttavia se pensiamo al quintetto da commedia borghese che Korngold porta in scena (la coppia dei padroni di casa, quella dei domestici e lospite inatteso) la traslazione depoca non è peregrina, e lambiguo deus ex machina del gruppo – Totem e tabù è proprio di quegli anni – è truccato come Freud: il libretto si finge «in una piccola città sassone», ma la Berggasse 19 non è tanto lontana. Daltronde nella lotta a distanza tra Austria e Germania, Vienna e Weimar, Haydn e Schiller (è il suo Der Ring des Polykrates a offrire il destro al titolo) che serpeggia lungo tutta lopera appare evidente come il vincitore, per Korngold, sia sempre il primo dei due termini di confronto.
Una scena da L'anello di Policrate
Roman Brogli-Sacher, sul podio dellOrchestra Internazionale dItalia, rende giustizia a queste due partiture così vicine e così lontane: nellAnello di Policrate evidenzia i momenti di leggerezza quasi operettistica e, al contempo, non trascura gli spessori fonici post-romantici, lasciando intuire il Korngold che verrà; né dimentica che se Der Ring des Polykrates è, tra i due lavori, quello più melodico-cantabile, spetta però a Das geheime Königreich una maggiore attenzione allelemento vocale. La funzione di motore dellopera che assume in Krenek la drammaturgia canora si traduce in una scrittura che, riducendo i personaggi a degli archetipi, estremizza le loro caratteristiche e ne moltiplica le difficoltà: la Regina è un po la summa dun secolo e mezzo di soprani di coloratura, il Rivoluzionario appare come lepitome grottesca delle iperboli del tenore eroico. Sono ruoli che richiedono interpreti consapevoli e vocalisti ferratissimi: Zuzana Marková risponde meglio alla prima che alla seconda richiesta, Danilo Formaggia arriva alla quadratura del cerchio padroneggiando una scrittura acuta ai limiti dellineseguibile e facendo del suo ribelle non una caricatura, ma un vero personaggio.
Antonio Yang dà prova di grande duttilità scenica e vocale, passando dal malinconico sovrano autodetronizzatosi dellopera di Krenek allambiguo amico di famiglia del Policrate, cantando da baritono nel primo caso, sostanzialmente da basso nellaltro. Delle due coppie tenore/soprano che laffiancano in Korngold quella “minore” è preferibile alla protagonistica: Ausrine Stundyte ha voce più importante ma meno levigata rispetto ad Anne Ellersiek, e Ladislav Elgr è lanello debole della catena per qualità di suono e intonazione, laddove Daniel Szeili si fa simpaticamente onore. A emergere su tutti è però Martin Winkler, “baritono assoluto” capace di padroneggiare il tragico e il comico, oltre che cantante-attore di alto livello. È il suo giullare del Regno segreto – tagliente nel declamato, fluido negli sprazzi cantabili e livido come un commediante brechtiano – a dominare il palcoscenico: un Rigoletto novecentesco, svuotato dogni afflato romantico ma di tragica oggettività.
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