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Teatro versus libertà

di Adela Gjata
  I giganti della montagna
Data di pubblicazione su web 11/07/2011  

Vedere uno spettacolo in carcere è un’esperienza fuori dal comune: non solo per l’effetto straniante che provocano la lunga serie di controlli e il metallico rumore delle porte che ti si chiudono dietro, ma per l’eccezionalità intrinseca dell’evento. Il carcere, luogo deputato alla detenzione, si trasforma, grazie all’attività artistica, in un tempo-spazio altro, insieme educativo e socializzante. Gli spettatori – in numero limitato – diventano testimoni di una performance dove la finzione e il travestimento guadagnano un valore aggiunto rispetto alla normale prassi scenica. Le pionieristiche e ben note esperienze teatrali dell’ex ergastolano Rick Cluchey e della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che sta assumendo un peso sempre più rilevante all’interno di un generalizzato impegno del mondo del teatro a intervenire nei territori del disagio. Ne è ulteriore prova la messa in scena dei Giganti della montagna con i detenuti della Casa Circondariale di Prato. L’allestimento è l’esito di un laboratorio biennale ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, parte del più generale Progetto Teatro in Carcere promosso dalla Regione Toscana.


Foto di Alessandro Botticelli
Foto di Alessandro Botticelli

I Giganti della montagna, ultimo capolavoro incompiuto di Luigi Pirandello, narra l’incontro tra i misteriosi abitanti della Villa della Scalogna guidati dal Mago Cotrone e la malandata compagnia teatrale della contessa Ilse, passionale eroina tragica che vaga recitando La favola del figlio cambiato, scritto da un giovane poeta che, innamorato e da lei respinto, si suicida. Le sorti dei teatranti vengono stabilite nel terzo atto – da Pirandello ideato ma mai scritto –, in seguito allo scontro con i Giganti, esseri violenti e oscuri, descritti dall’autore come «duri di mente e un po’ bestiali». Pedullà individua nella favola-mito di Pirandello temi e sottotesti che vengono notevolmente potenziati dal contesto restrittivo del carcere. Il nesso fra sogni, desideri e realtà, le identità delle persone e la necessità della libertà, la violenza schiacciante dei regimi totalitari, la durezza della società di massa, la crisi perenne del teatro e dei teatranti, sono i temi emergenti della messinscena. Sostengono la performance degli attori-detenuti – composto in gran parte da italiani meridionali e albanesi – tre attrici professioniste: Rosanna Gentili (Ilse), Gila Manetti (Diamante) e Giusi Merli (Sgricia). Ma è soprattutto Gianfranco Pedullà, autore tout court della rappresentazione, a coadiuvare l’armonia dei movimenti scenici. Dramaturg e regista ma anche suggeritore e attivo allestitore, il capofila del Teatro popolare d’Arte aleggia, come una presenza kantoriana, tra gli interpreti, orchestrando in una sorta di regia in progress le drammaturgie costituenti lo spettacolo. 

Il lavoro teatrale cerca di sfatare la mitografia dei Giganti come testo difficile e intellettualoide, donando alla messinscena la chiarezza di una fiaba sospesa tra magia e crudeltà. La dimensione del racconto, tradotta in un flusso di gesti e parole, è stato il trait d'union tra il testo e i reclusi-attori.  Se è vero che il valore di esperienze del genere bisogna cercarle nel processo di lavoro, sarebbe necessario cercare di capire certe difficoltà imperative che ne stanno a monte: di ordine logistico prima che emotivo. Difficoltà dovute al fatto di dover lavorare in un contesto restrittivo con persone impedite da ostacoli concreti, quello della lingua in primis. Pedullà, regista-pedagogo, unisce all’intervento sociale una meticolosa ricerca artistica che stimoli la fantasia e l’armonia del lavoro di gruppo, composto da persone appartenenti a culture e mentalità diverse. Il laboratorio teatrale nasce e matura a partire dalla realtà e dall’energia delle persone coinvolte, messe a confronto con un testo importante e un’attitudine etica e seria nei confronti del laboratorio teatrale. Così, la poesia riflessivo-malinconica di Antonio Dolceamore, poeta dal nome evocativo che recita se stesso sulla scena, diventa perno prezioso del lavoro drammaturgico.


Foto di Alessandro Botticelli
Foto di Alessandro Botticelli

Il nudo spazio scenico rappresenta un tempo-luogo indeterminato, al limite fra sogno e realtà, ma anche uno spazio simbolico, che contamina l’isolamento del carcere con la liberatoria esperienza teatrale. Siamo nel regno spiritato degli Scalognati, popolo di emarginati che crea magia e incantesimi contro le intrusioni del mondo circostante. «Siamo qui come agli orli della vita, Contessa» dice Crotone ad Ilse «Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile. Avviene ciò che è solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia». L’incontro tra il mondo degli autoreclusi e il gruppo dei teatranti crea molte situazioni ludiche, grottesche e tragicomiche, intervallate dalle “arie” riflessive di Cotrone e dagli intermezzi contrappuntistici del gruppo musicale diretto da Massimo Altomare. Pedullà costruisce una dinamica di azioni che oscillano tra lo slancio corale degli Scalognati e gli “a solo” della contessa e Cotrone, in un mosaico di sentimenti, umori, e atmosfere che rispecchiano i chiaroscuri della vita stessa. Spicca, tra le altre, la storia di Sgricia, impersonata da una tenera Giusi Merli di bianco vestita, che racconta l’incontro miracoloso con le anime del Purgatorio e l’Angelo Centuno, mentre sul corridoio sopra la sua testa sfila il corteo degli angeli dall’andamento burattinesco, riproduzione ludica e curiosa delle iconografie popolari.

Il terzo atto rappresenta il momento di svolta della storia dei Giganti che coinvolge il pubblico in prima persona. La platea viene ribaltata, la scena si trasforma in uno spazio riservato agli spettatori. La parete di fondo diventa un grande schermo, palco di apparizioni e immagini surreali. Siamo nel regno incantato di Cotrone dove, come in un sogno, tutto diventa possibile: i teatranti si staccano dai corpi vivendo in un’altra dimensione; i personaggi della Favola del figlio cambiato si materializzano all’istante. Quest’atmosfera surreale precede il tragico epilogo in un crescendo intriso di tensione e poesia.

Ilse recita disperatamente, per l’ultima volta, davanti al pubblico dei Giganti, concepite come ombre titaniche che oscurano il fondale scenico, insensibili alla poesia e alle cose dello spirito. Lo schermo viene affollato dai primi piani drammatici della protagonista – un’intensa Rosanna Gentili – che rimandano a certe icone del cinema muto degli anni Dieci e Venti. I Signori del potere, accolgono con urla e fischi la rappresentazione, gli attori reagiscono, nasce una zuffa nella quale Ilse rimane definitivamente vinta. I Giganti, emblema dei sistemi totalizzanti che omologano pensieri, ideali e desideri, schiacciano l’esile forza di Ilse, così come l’avvento del cinema tendeva a sopraffare l’arte scenica già nel primo Novecento. La potenza evocativa delle immagini raggiunge il climax nell’ultimo quadro della rappresentazione: la contessa dai «capelli rossi sparsi come un sangue di tragedia» giace definitivamente sopra il malmesso carretto dei suoi vagabondaggi teatrali, illuminata dalla luce rossa di una luna piena – presagio di malaugurio secondo le credenze popolari – mentre viene scortata all’ultima dimora dalla litania mormorante dei suoi compagni di viaggio. Si conclude così un allestimento, fortemente simbolico, che auspica un teatro che torni a essere di tutti e per tutti, rituale e redentore, come nell’antica polis




I giganti della montagna
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