Vedere
uno spettacolo in carcere è unesperienza fuori dal comune: non solo per
leffetto straniante che provocano la lunga serie di controlli e il metallico
rumore delle porte che ti si chiudono dietro, ma per leccezionalità intrinseca
dellevento. Il carcere, luogo deputato alla detenzione, si trasforma, grazie
allattività artistica, in un tempo-spazio altro, insieme educativo e
socializzante. Gli spettatori – in numero limitato – diventano testimoni di una
performance dove la finzione e il travestimento guadagnano un valore
aggiunto rispetto alla normale prassi scenica. Le pionieristiche e ben note
esperienze teatrali dellex ergastolano Rick Cluchey e della Compagnia
della Fortezza diretta da Armando Punzo sono solo la punta delliceberg
di un fenomeno che sta assumendo un peso sempre più rilevante allinterno di un
generalizzato impegno del mondo del teatro a intervenire nei territori del
disagio. Ne è ulteriore prova la messa in scena dei Giganti della montagna
con i detenuti della Casa Circondariale di Prato. Lallestimento è lesito di
un laboratorio biennale ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, parte
del più generale Progetto Teatro in Carcere promosso dalla Regione
Toscana.
Foto di Alessandro Botticelli I
Giganti della montagna, ultimo capolavoro
incompiuto di Luigi Pirandello, narra lincontro tra i misteriosi
abitanti della Villa della Scalogna guidati dal Mago Cotrone e la malandata
compagnia teatrale della contessa Ilse, passionale eroina tragica che vaga
recitando La favola del figlio cambiato, scritto da un giovane poeta
che, innamorato e da lei respinto, si suicida. Le sorti dei teatranti vengono
stabilite nel terzo atto – da Pirandello ideato ma mai scritto –, in seguito
allo scontro con i Giganti, esseri violenti e oscuri, descritti
dallautore come «duri di mente e un po bestiali». Pedullà individua nella
favola-mito di Pirandello temi e sottotesti che vengono notevolmente potenziati
dal contesto restrittivo del carcere. Il nesso fra sogni, desideri e
realtà, le identità delle persone e la necessità della libertà, la violenza
schiacciante dei regimi totalitari, la durezza della società di massa, la crisi
perenne del teatro e dei teatranti, sono i temi emergenti della messinscena.
Sostengono la performance degli attori-detenuti – composto in gran parte
da italiani meridionali e albanesi – tre attrici professioniste: Rosanna
Gentili (Ilse), Gila Manetti (Diamante) e Giusi Merli
(Sgricia). Ma è soprattutto Gianfranco Pedullà, autore tout
court della rappresentazione, a coadiuvare larmonia dei movimenti scenici.
Dramaturg e regista ma anche suggeritore e attivo allestitore, il
capofila del Teatro popolare dArte aleggia, come una presenza kantoriana, tra
gli interpreti, orchestrando in una sorta di regia in progress le
drammaturgie costituenti lo spettacolo.
Il
lavoro teatrale cerca di sfatare la mitografia dei Giganti come testo
difficile e intellettualoide, donando alla messinscena la chiarezza di una
fiaba sospesa tra magia e crudeltà. La dimensione del racconto, tradotta in un
flusso di gesti e parole, è stato il trait d'union tra il testo e i
reclusi-attori. Se è vero che il valore
di esperienze del genere bisogna cercarle nel processo di lavoro, sarebbe necessario
cercare di capire certe difficoltà imperative che ne stanno a monte: di ordine
logistico prima che emotivo. Difficoltà dovute al fatto di dover lavorare in un
contesto restrittivo con persone impedite da ostacoli concreti, quello della
lingua in primis. Pedullà, regista-pedagogo, unisce allintervento
sociale una meticolosa ricerca artistica che stimoli la fantasia e larmonia
del lavoro di gruppo, composto da persone appartenenti a culture e mentalità
diverse. Il laboratorio teatrale nasce e matura a partire dalla realtà e
dallenergia delle persone coinvolte, messe a confronto con un testo importante
e unattitudine etica e seria nei confronti del laboratorio teatrale. Così, la
poesia riflessivo-malinconica di Antonio Dolceamore, poeta dal nome
evocativo che recita se stesso sulla scena, diventa perno prezioso del lavoro
drammaturgico.
Foto di Alessandro Botticelli
Il nudo spazio
scenico rappresenta un tempo-luogo indeterminato, al limite fra sogno e realtà,
ma anche uno spazio simbolico, che contamina lisolamento del carcere con la
liberatoria esperienza teatrale. Siamo nel regno spiritato degli Scalognati,
popolo di emarginati che crea magia e incantesimi contro le intrusioni del
mondo circostante. «Siamo qui come agli orli della vita, Contessa» dice Crotone
ad Ilse «Gli orli, a un comando, si distaccano, entra linvisibile. Avviene ciò
che è solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia». Lincontro
tra il mondo degli autoreclusi e il gruppo dei teatranti crea molte situazioni
ludiche, grottesche e tragicomiche, intervallate dalle “arie” riflessive di
Cotrone e dagli intermezzi contrappuntistici del gruppo musicale diretto da Massimo
Altomare. Pedullà costruisce una dinamica di azioni che oscillano tra lo
slancio corale degli Scalognati e gli “a solo” della contessa e Cotrone, in un
mosaico di sentimenti, umori, e atmosfere che rispecchiano i chiaroscuri della
vita stessa. Spicca, tra le altre, la storia di Sgricia, impersonata da una
tenera Giusi Merli di bianco vestita, che racconta lincontro miracoloso con le
anime del Purgatorio e lAngelo Centuno, mentre sul corridoio sopra la sua
testa sfila il corteo degli angeli dallandamento burattinesco, riproduzione
ludica e curiosa delle iconografie popolari.
Il terzo atto
rappresenta il momento di svolta della storia dei Giganti che coinvolge
il pubblico in prima persona. La platea viene ribaltata, la scena si trasforma
in uno spazio riservato agli spettatori. La parete di fondo diventa un grande
schermo, palco di apparizioni e immagini surreali. Siamo nel regno incantato di
Cotrone dove, come in un sogno, tutto diventa possibile: i teatranti si staccano
dai corpi vivendo in unaltra dimensione; i personaggi della Favola del
figlio cambiato si materializzano allistante. Questatmosfera surreale
precede il tragico epilogo in un crescendo intriso di tensione e poesia. Ilse
recita disperatamente, per lultima volta, davanti al pubblico dei Giganti,
concepite come ombre titaniche che oscurano il fondale scenico, insensibili
alla poesia e alle cose dello spirito. Lo schermo viene affollato dai primi
piani drammatici della protagonista – unintensa Rosanna Gentili – che
rimandano a certe icone del cinema muto degli anni Dieci e Venti. I Signori del
potere, accolgono con urla e fischi la rappresentazione, gli attori reagiscono,
nasce una zuffa nella quale Ilse rimane definitivamente vinta. I Giganti, emblema
dei sistemi totalizzanti che omologano pensieri, ideali e desideri, schiacciano
lesile forza di Ilse, così come lavvento del cinema tendeva a sopraffare
larte scenica già nel primo Novecento. La potenza evocativa delle immagini
raggiunge il climax nellultimo quadro della rappresentazione: la
contessa dai «capelli rossi sparsi come un sangue di tragedia» giace
definitivamente sopra il malmesso carretto dei suoi vagabondaggi teatrali,
illuminata dalla luce rossa di una luna piena – presagio di malaugurio secondo
le credenze popolari – mentre viene scortata allultima dimora dalla litania
mormorante dei suoi compagni di viaggio. Si conclude così un allestimento,
fortemente simbolico, che auspica un teatro che torni a essere di tutti
e per tutti, rituale e redentore, come nellantica polis.
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