«Mi sono serviti quattro anni per
imparare a disegnare come Raffaello, ma una vita intera per disegnare come un
bambino». Queste parole di Pablo Picasso si adattano magnificamente alla
struttura e insieme al tipo di lettura che uno spettacolo come (Im)possible richiede. Come dire che,
per leggere una trama così densa di forme e contenuti, allo spettatore si
richiede il sacrificio di tutto quanto ha in memoria in fatto di danza
narrativamente e concettualmente preordinata.
Nella scarna e incisiva cornice
visiva della stazione Leopolda di Firenze, entra a far parte del carnet di Fabbrica Europa 2011 la creazione
della norvegese Ina Christel Johannesen,
eseguita in prima nazionale dalla compagnia Zero Visibility Corp, da lei fondata nel 1996. Unartista che ha un
peculiare stile coreografico basato sullimpiego di materiali e pensieri
variamenti assemblati dai danzatori direttamente sulla scena.
Quello che ci troviamo davanti è in
effetti una sorta di “ipertesto”, caoticamente allestito su di una pedana
rettangolare, nera: uno spazio concluso e stilizzato, in cui si individuano
pochi elementi scenografici fissi, accanto e sui quali, oggetti di varia natura
vengono “performati” dagli interpreti. Langolo in fondo a destra della
pedana/palco è “tagliato” di sbieco da un pannello calato dal soffitto, una
sorta di ampia tenda rossa intessuta di petali sintetici. Poco più avanti,
nella stessa direzione, una serie di lampade sospese emana una luce fioca ora
fissa, ora intermittente, ora inesistente. Il lato corto a sinistra del palco è
invece sottolineato da una banda rettangolare sostenuta anchessa dallalto e
costituita da pannelli metallici che riflettono la poca luce in scena,
modulandola in suggestivi effetti luministici. Della cenere plumbea è ammucchiata
ai piedi della tenda, mentre due vecchie sedie e qualche scatolone affastellato
sul fondale nero completano la cornice scenografica minimale, eppure ricca di
elementi, all'interno della quale agiscono in poveri costumi “quotidiani” Line Tørmoen, Dimitri Jourde,
Sudesh Adhana, Kristina Søetorp, Cecilie
Linderman Steen. Questi i cinque elementi che compongono la compagnia e su cui
spiccano labbigliamento vagamente militaresco di uno di loro e il costume in
organza nera e rosa di cui una delle interpreti si spoglia, rimanendo in
semplici pantaloni rossi e canotta beige.
Le luci, basse e rade,
scolpiscono le figure isolandole in fumosi “occhi di bue”, mai perfettamente a
fuoco e si creano così tanti piccoli momenti coreografici in seno al
macro-contenitore dello spettacolo che, a loro volta, contribuiscono a definire
questo “ipertesto” e danno allo spettatore la piena libertà di scegliere quali
figure e movimenti seguire, tra quelli che si svolgono – spesso contemporaneamente
– sul palco.
Le musiche di Irisarri, Jacaszek, Ø, Kreng, BJNilsen e Noto, formano
un coacervo di suoni in cui limpulso ritmico è lelemento fondante sul quale
si amalgamano e avvicendano rumore, canto lirico, canti popolari di trazioni
etnografiche diverse e stilemi dellelettronica contemporanea.
Parimenti variegato e finanche
disordinato è laccumulo di diversi stili espressi dai danzatori che, di formazioni
e preparazioni atletiche eterogenee, contribuiscono alla resa di (Im)possible. Ai due interpreti
maschili, raffinati breaker capaci di
un iper-controllo del movimento incanalato nella musica così da creare vere e
proprie “onomatopee corporee”, fanno da contraltare tre interpreti femminili
che, ciascuna a suo modo, mostrano ora unevidente preparazione classica, ora
una contemporanea e ora una ispirata alla danza jazz.
In questo pot pourri lo spettatore rimane a tratti un po disorientato,
stordito dalla varietà, dai materiali e dalla molteplicità di azioni coreografiche
che si avvicendano e sovrappongono sulla scena. Tuttavia a difesa di questo
tipo di linguaggio espressivo è lecito porre le ragioni di una fruibilità che
si adegua alla caotica e disordinata cultura contemporanea. Nellera di
Wikipedia, larte come la cultura, somigliano a un enorme calderone al quale è
legittimo attingere in modo discontinuo e occasionale. Forse è proprio questo l(im)possibile cui allude il titolo: la ricerca
di modi e tempi diversi per unarte che oggi ha smarrito le coordinate
spazio-temporali della sua produzione e ricezione. Una nuova e possibile “aura”
che – parafrasando Benjamin – si è persa proprio “nellepoca della sua riproducibilità
tecnica”.
|
|