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Suggestioni e solitudini in terra d'Israele

di Giovanni Fornaro
  Lo stesso mare
Data di pubblicazione su web 08/06/2011  

La nuova drammaturgia musicale di Fabio Vacchi, Lo stesso mare, nasce nel segno di una profonda fascinazione del compositore verso l’omonimo romanzo di Amos Oz. Quella struttura narrativa ha costituito per Vacchi una formidabile fonte di ispirazione, perché la difficile, estrema – quasi sperimentale – frammentarietà del ductus conduce il lettore, anche attraverso aspri sentieri, verso il significato finale di un opera corale, in cui le diverse ma correlate esperienze, le tante solitudini e i molteplici dolori si ricompongono attraverso un lavoro organico, non fine a sé stesso, di giustapposizione e di confronto fra personalità, caratteri, relazioni, sentimenti e, sorprendentemente, paesaggi (reali o dell’anima, è quasi dire la stessa cosa).

 

In effetti il rapporto con la terra, con i suoi frutti, con gli animali e gli uomini che, abitandola, la marcano, è più che un tema costante della migliore letteratura israeliana contemporanea, da Grossman a Yehoshua allo stesso Oz: è come se questo popolo millenario avesse introiettato il mito della ritrovata terra promessa, di cui finalmente assapora voluttuosamente odori e colori, tanto che essa diventa una specie di sottotesto, di leitmotiv ricorrente, che impegna in modo significativo lo “spazio” del romanzo, il suo senso profondo.

 

Qual è, questo senso? La profonda solitudine del sessantenne contabile Albert, da poco vedovo della amata moglie Nadia, si accompagna alle omologhe solitudini del figlio Rico, in viaggio alla ricerca di sé stesso in Tibet, di sua nuora Dita, che attende Rico con serenità ma con alcune “distrazioni” (anche con lo stesso Albert), della matura Bettin, fiscalista amica/amante di Albert, di Ghighi (uno degli uomini di Dita), di Dobi Dombrow, scalcinato impresario cinematografico per il quale Dita scrive sceneggiature e di cui respinge le fastidiose avances.

Apparentemente il dolore che caratterizza tutti i personaggi farebbe pensare ad un’opera priva di speranza, apocalittica.

 


Una scena dell'opera
  

È un personaggio apparentemente minore come la consolatoria prostituta Miriam, che Rico frequenta durante i suoi viaggi in Oriente, a costituire una possibile chiave interpretativa per l’intero coacervo di relazioni umane presenti in Lo stesso mare: eros come punto nodale di vite abbandonate, come salvifico airbag contro la disperazione e il dolore individuali, come essenza stessa dell’uomo quale essere sociale. Un dispositivo semplice da innescare: uno sfioramento casuale, un lembo di pelle scoperto inaspettatamente, un fremito sopito e riemerso dalle nebbie del passato ed ecco che anche quando le differenze appaiono insormontabili, come fra Dita e Albert, esse si annullano, rivelando un nuovo volto al presente, forse anche al futuro.

 

Il magmatico e frammentario romanzo si è trasformato, sempre a cura dell’autore Amos Oz, in un articolato e complesso libretto di un’opera lirica intricata, multimediale nel senso pieno del termine, in cui le voci dei vari protagonisti (il canto che ad ognuno è assegnato dalla partitura) non sono più sufficienti, da sole, a dar conto della stratificata articolazione della narrazione: si rende quindi necessario moltiplicare per tre quell’io narrante, che affiora in brevi ma importanti pagine nel romanzo, che spesso non si limita a descrivere o a commentare ma si fa personaggio-uomo, attore fra gli attori, sublime e fallace come questi ultimi.

Ecco allora Narratore 1 che descrive e spiega le situazioni, Narratore 2, una elegante figura femminile, «cui è affidata l’essenza espressiva e poetica», e Narratore 3 che è Oz stesso quando interviene in media res, più personaggio che autore.

Non basta ancora. Occorre dar conto di voci che non sono presenti, personaggi lontani e dei quali uno scambio di e-mail (nella versione drammaturgica) è tutto ciò che è rimane, suoni digitalizzate e immagini evanescenti sugli schermi giganti che accompagnano quelli, più usuali ma qui davvero molto utili, dei sopratitoli.

 

Vacchi, da parte sua, imbastisce una partitura multilivello, in cui alle esperienze dell’avanguardia novecentesca unisce molteplici riferimenti alla storia dell’opera lirica (in alcuni casi espliciti, al Don Giovanni, alla Traviata e al Rigoletto, come nel secondo dei tre lunghi atti, più di tre ore di musica) come al patrimonio etnico mediorientale e sefardita.

Si tratta di un interesse etnomusicologico non episodico (ricordiamo, a titolo esemplificativo, un’altra recente e importante opera lirica del compositore, in cui i riferimenti etnici sono fondamento stesso della scrittura musicale: Teneke, prima assoluta a Milano, teatro alla Scala, 23 settembre 2007) che a Bari è emerso con evidenza solo in taluni episodi, in particolare quelli relativi a Miriam e a Bettin.

 

La struttura della partitura, contraddistinta come nella migliore tradizione, da arie, recitativi, e così via, pur nella realtà dialogica delle relazioni fra i personaggi, appare abbastanza “chiusa”, con pochi momenti di contrasto drammatico fra le voci e i suoni. Si ha, all’ascolto, una sensazione di staticità musicale, di ridotta dinamicità dei rapporti fra voci e musica strumentale, sebbene sia da considerare superlativa la prova dell’Orchestra della Fondazione Petruzzelli e la robusta direzione di Alberto Veronesi, a loro agio con una partitura davvero ostica.
 


Yulia Aleksiuk nel ruolo di Dita
  

Gae Aulenti, architetto di fama mondiale, ha interpretato le scene di un’opera così frastagliata in modo innovativo. Spiagge, deserti, giardini non sono un paesaggio-scena ma qualcosa che incombe “dietro” (appunto, un sotto-testo): sul fondo, in verticale, si staglia prima un grande mare spumeggiante, poi (II e III atto) la sabbia calda di un deserto; in primo piano, sulla scena, tre enormi strutture architettoniche, zigurath pluriplano che consentono ai personaggi e narratori di agire in contemporanea sulla scena, come il libretto richiede. E ci piace pensare che l’idea sia venuta alla signora Aulenti direttamente dal romanzo, quando è Albert a rivolgersi alla moglie defunta parlandole di Rico: «Mille volte ti ho già detto che mio figlio deve crescere per diventare una persona intraprendente, onesta e logica, senza grilli per la testa nelle nuvole invece con i piedi per terra, su questa terra, che non ha boschi né casette, piuttosto: sabbie calde e piani regolatori» (p. 213).

 

Il regista Federico Tiezzi fa interagire i cantanti in maniera dinamica con i vari “piani” presenti e aggiunge la presenza di figure maschili e femminili in plastici e sincopati movimenti – nei costumi di Giovanna Buzzi –, quasi un esercito in perenne allenamento (i riferimenti alla realtà contemporanea di Israele sono evidenti): certo non è facile rendere in un teatro d’opera la sensualità e l’erotismo che si sprigiona fra i protagonisti (se non si dispone di Rolando Villazón e Anna Netrebko, insieme) e qualche volta gli approcci sono apparsi un po’ impacciati, ma certo il mezzo non aiuta.

 

Le voci sono chiamate ad un lavoro francamente improbo, vista la difficile partitura, ma quasi tutti svolgono il loro compito con grandi capacità interpretative, a cominciare dall’applaudita Yulia Aleksiuk (Dita), Chiara Taigi (Bettin), Sabina Macculi (Nadia, nel ruolo più complesso e difficile), il bravissimo Danilo Formaggia (Dobi), continuando con Giovanna Lanza (Miriam), Stefano Pisani (Ghighi) e Alessandro Castellucci (Rico). Un po’ fuori tono, in un ruolo che probabilmente non era adatto alle sue caratteristiche vocali, è apparso Julian Tovey (Albert), mentre davvero efficaci e interessanti le voci dei tre Narratori (nell’ordine numerico Sandro Lombardi, Giovanna Bozzolo e Graziano Piazza).

 

Molto bella la conclusione, quel Magnificat corale che non è l’ultima pagina del romanzo ma la cui serena e morbida fluidità, alimentata da un doppio giardino orizzontale-verticale, coltivato e curato da tutti i personaggi, è perfetta per il Finale di un’opera che, nel complesso, resterà nella storia della drammaturgia musicale europea.

 

 

Lo stesso mare



cast cast & credits




 
 
 
 
 
 


Applausi finali


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 


Sandro Lombardi fa la
Voce narrante

 
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