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Memento per Franco Quadri

di Ferdinando Taviani
  Franco Quadri
Data di pubblicazione su web 05/04/2011  

Non era un “uomo di mondo”. Si era spostato e faceva parte del mondo del teatro. Non era nemmeno un uomo di potere, benché molti giovani degli ultimi trent’anni l’abbiano percepito proprio come un uomo di potere, bevendosi le proprie percezioni come fatti reali. Non era un “critico”, non nel senso d’una di quelle persone che brandivano l’autorità di metter bocca nella difficile arte dei teatri. L’autorevolezza di spettatore competente se l’era conquistata da solo, senza nomine giornalistiche o accademiche, prima ancora dei trent’anni, viaggiando nel teatro per ogni dove. Non di rado pagò di tasca propria la propria attività e le proprie iniziative. Così credo che abbia fatto fruttare (che cioè abbia consumato) i suoi guadagni e una rendita famigliare. Si comportò da ricco ed è morto povero. Era un vero uomo di cultura, uno di quelli che la cultura la fomentano e non l’amministrano.

 

Era una brava persona? Certamente. Era equanime, imparziale? Mai. Sempre seriamente motivato nelle sue parzialità. Il vizio peggiore – essere spassionato – non l’ebbe mai. Sapeva nutrire nel proprio foro interiore emozioni e passioni anche invecchiando. A volte era difficile sopportarlo, perché nutriva capricci e si cavava la voglia di piccole arbitrarie vendette. Ma i capricci non erano mai simili ai capricci di plastica esibiti come uno status symbol dai baroni dei giornali, delle accademie o delle amministrazioni. Le vendette capricciose erano in prima persona, mai appese all’impalcatura del ruolo, mute e furiose come quelle dei bambini e delle bambine. Imperscrutabili, insormontabili. Non si poteva evitarle, bisognava aspettare che svanissero da sé. Svanite, potevano lasciare qualche graffio e qualche rabbia. E però mai il sapore del disgusto.

 

Era amabile? Poteva essere molto amato. Ma era amabile? No. Niente surrogati. D’animo gentile? Ma spesso scorbutico e spinoso nei modi. A volte dolcissimo.

 

Ora, in quest’inizio di primavera, scriviamo titoli d’addio, di rimpianti per la sua “scomparsa”, ripetiamo che “se n’è andato”, che “ci è venuto a mancare”. Continuiamo ad illuderci che “scomparsa” e “mancanza” siano eufemismi al posto di “morte” – mentre è quest’ultima, semmai, ad esser la parola meno dura. Perché “Addio”? Che senso ha dire che “se ne è andato”? Ce lo troveremo a lungo fra i piedi, e se lo troveranno coloro che riescono ad amare i piccoli laghi del teatro.

 

Forse che se ne andò, all’inizio della primavera del 1955, Silvio d’Amico? Ancora oggi ci sorprendiamo ad esser pensati da pensieri che vengono dal vecchio d’Amico. Figuriamoci quanto a lungo continueranno a venire fra i nostri i pensieri gli atti di Franco Quadri.

 

I due, d’Amico e Quadri, hanno fra loro prepotenti e non volute corrispondenze. Nella cultura teatrale italiana del Novecento, occupano posizioni simmetriche per importanza, e speculari per impostazione. Ambedue agirono per rendere degno l’ecosistema dei teatri, il territorio che amavano. Si dedicarono alle sue diverse zone, agli angoli ed ai canali ingombri o inoperosi. Cercarono di approntare gli spazi materiali e immateriali in cui far dialogare l’Italia col resto del mondo; il teatro con le altre arti; il presente col passato. Si adoperarono per preservare la memoria delle persone facili da dimenticare, per trasmetterne le esperienze, per dare un minimo di sensatezza all’economia delle imprese sceniche, per garantire loro il necessario respiro. Si batterono contro le malattie professionali di arti e mestieri basati sull’effimero. Ma mentre l’uno, Silvio d’Amico, tentò di materializzare una buona regola, l’altro capì che bisognava orientarsi sulle eccezioni, sul nugolo delle esperienze incompatibili, sulle periferie, sulle voci contraddittorie che scompigliano le carte e i piani culturali regolatori. L’uno sognava l’avamposto di un’Accademia, teatri modello, un’enciclopedia d’alta qualità. L’altro, cascate di informazioni in subbuglio, artisti in contraddizione, scontri fra esperienze incompatibili, attriti capaci di sprigionar scintille. L’uno aspirava all’urbanistica d’una cittadella d’arte. L’altro, ad allestire con cura lo spreco premeditato dei banchetti. Silvio d’Amico era figlio della fisica galileiana. Franco Quadri, della patafisica.

 

Ma benché la patafisica ironicamente si presenti come scienza delle eccezioni, dei particolari, delle potenzialità e delle soluzioni immaginarie, essa si è dimostrata la più sensata, la più adatta alla vita del teatro nella seconda metà del secolo scorso. Quando si vide come la buone regole di fatto castrassero le buone pratiche. E si capì dove andassero a finire, per esempio, le belle idee, i teatri stabili, l’Accademia d’Arte Drammatica, e persino l’idea d’un buon piano politico pei teatri. Ci fu – farsesca – l’interminabile attesa d’una legge nazionale sul teatro: innumerevoli convegni e dibattiti in cui pensosi esperti con i piedi apparentemente per terra, sempre diversi e sempre eguali, con la lingua di legno dei politicanti, si presentavano al microfono brandendo le cifre e gli atti ufficiali delle commissioni, avvertendo allarmati che era il caso di smetterla “di farsi pugnette”, visto che la Legge era lì, quasi pronta, praticamente pronta, imminente, e bisognava intervenire sùbito o mai più, di corsa, ché già s’era fatto tardi. E passò così, fra queste “urgenze” mezzo secolo.

 

E intanto l’illusione più patetica e potente, quella della buonafede, ispirava onestissime denuncie sull’iniqua distribuzione delle sovvenzioni, mentre le orecchie patafisiche già sentivano lo scalpiccio dei ministeri servili addetti a tagliare le pubbliche risorse agli artisti inadatti a versare e far versare voti utili nelle urne.

 

La logica patafisica è tutto sommato la più ordinata e s’adatta alla vita delle arti – che se son vive sono imprevedibili. Funziona per sintomi, esempi, fatti compiuti. Avendo l’autonomia culturale e i gusti personali necessari per frequentare vie parallele rispetto a quelle degli organizzatori di professione, Franco Quadri poté essere intellettuale genuino ed efficace organizzatore. Con gli organizzatori di professione sapeva dialogare ben attento a non adeguarsi ai loro costumi ed alle loro vedute. I suoi sembrarono a volte colpi di mano, paradossi voluti, solidarietà partigiana per i teatri ribelli, festival che parevano irridere alla logica istituzionale dei festival. Perlustrò l’intero immateriale territorio teatrale. Rivitalizzò angoli inerti, la lana mortaccina, per esempio, composta dalla congiunzione d’una stanca letteratura drammatica e d’un’altrettanto fiacca indifferenza nei confronti del teatro in forma di libro. Inventò persino un sistema di premi, perché i piccoli laghi del teatro hanno anche bisogno di premi e competizione. Si dirà che non aveva un coerente programma. Che tutto questo era il risultato di invenzioni personali e serendipità. Effettivamente era intelligente serendipità. Semplice e logica arte del camminare. Si fece editore. Si guardò intorno, vide che non c’erano più buoni annuari di teatro e si inventò il «Patalogo», qualcosa che parve all’inizio il non plus ultra d’una trouvaille, di cui ora non si saprebbe fare a meno. Si dice che sia un’inesauribile miniera di informazioni, e lo è, ma una miniera le cui gallerie hanno le fantasie, le feste e le libertà dell’Abbazia di Thelème pensata da Rabelais.

 

Era un solitario e radunò attorno a sé persone accese e raffinate. Sembrava spesso “strano”, ma in realtà era semplicemente un buon politico, un assennato organizzatore, una persona di gran buon senso, ottimo conoscitore del suo terreno d’azione, dove non si illudeva potessero risultare assennati i paradigmi e i cliché degli addetti alle politiche culturali. Se ne rese conto sùbito: nel mondo spostato dei teatri il buon senso consiste nell’allontanarsi del senso comune. Il quale viene da fuori, non è organico ma inculcato. Non c’è nient’altro d’altrettanto efficace, che richieda intelligenza e scaltrezza, ma permetta di far quel che si deve e si vuole facendo male a nessuno.

 

Non esageriamo con le commemorazioni. Serve imparare. Costretti a vivere nel disgusto, sappiamo fin troppo che resistere non basta.

 

 


Franco Quadri alle prove di Hamlice della Compagnia della Fortezza
(Foto di PierNello Manoni)



 
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