La malaria è la malattia epidemica che nellAfrica nera decima ogni anno le popolazioni locali, il dottor Ebbo Velten è uno straordinario medico che ha deciso di consacrare la vita alla sua estirpazione. Sono dunque ventanni che, membro autorevole di unassociazione di medici senza frontiere, vive la vita del cooperante. Impeccabile sul piano sanitario pare pure felice maritamante di una snella e seducente compagna di lungo corso, madre della comune figlia, adolescente e viziata che giunge in Camerun a trovare i genitori per le vacanze estive e dimostra tutta la sua indifferenza per la bellezza dei luoghi e, ancor più, per la bellezza morale dellimpresa paterna. Urge dunque un sacrificio familiare con partenza per lOccidente ormai estraneo e abbandono dellesaltante vita coloniale. Madre e figlia partono (luna col mal dAfrica già nel cuore e laltra col prevedibile sollievo del ritorno alle banalità della civiltà metropolitana) e il padre resta, ancora un poco, a coordinare la sua sostituzione. Prologo finito.
Inutile sorprendersi se il rinvio assumerà i caratteri della paura e dellinerzia, o forse di una scelta inconfessata. Il tempo passa e lAfrica si impossessa sempre più delluomo i cui orizzonti sono sempre più ripetitivi e sempre più simili a quelli di un cinquantenne in crisi che di un efficace missionario. Tanto che dal quartier generale europeo viene inviato un giovane medico di origine camerunense a valutarne loperato e la perdurante validità del progetto. Il giovane valutatore, forte dellarroganza della giovinezza e di una presunta superiorità elargitoria, fatica molto a rendersi conto della situazione (nessun programma internazionale può rendere le sensazioni e lo smarrimento provato nella realtà vera) ma deve pur arrendersi di fronte all inconsistenza delloperato e allevidente sbandamento del medico che, più che curare la malaria (altrimenti detta malattia del sonno) altrui pare esserne stato infettato nel carattere e nella lucidità morale. Sbiadita la memoria dei suoi vecchi “doveri” familiari, vive con passività quelli di una nuova paternità, e pare a suo agio solo negli interminabili trasferimenti in jeep (dove e perché non è ben chiaro). Sempre più accidioso, opaco e depresso comunica a monosillabi fino a che in una suggestiva (e per il giovane collega ispettivo, angosciosa) battuta di caccia, tra rumori della foresta e inquietanti gorghi acquatici, un colpo secco di fucile pone fine al tutto.
La letteratura è piena di questi personaggi (e delle loro riduzioni cinematografiche) presi dal mal dAfrica, disorientati e insabbiati in un doppio destino che non riescono più a controllare. Perché uno di più? Perché unidea nuova cera, anche se non nuovissima, ed era quella di una riflessione sullesotismo assolutamente particolare della cooperazione internazionale, sui suoi slanci generosi, sui suoi sensi di colpa, sui suoi equivoci che sempre più la stanno mettendo in discussione. Sul protagonismo narcisistico dei nuovi angeli dispensatori. E per certa parte del film questa linea tesa dellambiguità tiene. Pian piano anche il regista sembra preso dalla malattia del sonno, le situazioni diventano episodi di corto respiro (alcuni degni cooperatori paiono esangui doppioni di Boldi in ferie esotiche), lallusione si trasforma in enunciato e il colpo finale sottrae lo spettatore al rischio di un contagio soporifero. Le colpe di unopera volenterosa ma non riuscita vanno però equamente compartite tra il quarantenne regista Ulrich Köhler e il protagonista Pierre Bokma, che dà al suo personaggio una drammaticità del tutto esteriore in cui il trascolorare delle emozioni è reso soprattutto dalla lunghezza della barba.
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