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La tragicommedia degli esclusi

di Elisa Uffreduzzi
  Another year
Data di pubblicazione su web 07/02/2011  

Another Year scorre con una lentezza esasperante, quasi dovesse far assaporare in tutta la sua lunghezza lo scorrere delle stagioni che scandiscono il tempo del film suddiviso in quattro capitoli, dalla primavera all’inverno successivo. Il racconto è una tranche de vie con pochi personaggi: conoscenti, parenti, amici e pazienti s’incontrano e si scontrano sullo sfondo di quella che sembra una scenografia teatrale unica. Gran parte del film si svolge infatti a Londra, tra le pareti di casa di Tom (Jim Broadbent) e Gerri (Ruth Sheen); geologo lui, psicologa lei, sono un’anziana coppia, idilliaca fino a sembrar finta come i personaggi del cartone animato che evocano i loro nomi: i due affabili coniugi paiono aver trovato la ricetta del “buon vivere” e accolgono le vite che incontrano sulla propria strada con apparente generosità e affetto. A poco a poco però si tradiscono e spuntano a tratti moti di disappunto, quando non di disprezzo: s’insinua così il dubbio che forse non era un sincero slancio verso il prossimo a muovere le tante piccole buone azioni della coppia ma piuttosto l’egoistico desiderio di sentirsi migliori, superiori, di elargire con presunzione agli altri le proprie lezioni di vita. Chi è Gerri per sentirsi delusa dalla matura amica/collega Mary (Lesley Manville) che ha osato essere gelosa di suo figlio come un’amante tradita? E chi è Tom per dire a suo fratello Ronnie (David Bradley) che se tra poco il nipote si toglierà dai piedi sarà un bene? Il peccato del giudizio e del pregiudizio è la falla nella commedia quasi perfetta che Tom & Gerri recitano ogni giorno. Da consumati attori quali sono ci hanno quasi convinto, ma non arrivano all’autunno che i veri protagonisti della storia si rivelano piuttosto i loro comprimari: sono loro a conquistare l’attenzione e la simpatia del pubblico. Mary, con tutto il suo essere inopportuna, alcolizzata, tardona, perennemente alla ricerca di un uomo; Ken (Peter Wight), grasso, ubriacone e spiacevole scrocca-pranzi; Carl (Martin Savage), con la sua rabbia infinita per la morte della madre e i rancori nei confronti del padre; suo padre Ronnie, con i suoi eloquenti silenzi; persino la paziente depressa di Gerri che vediamo inquadrata nell’incipit del film in un primissimo piano allargato fino a mostrarci la grana della pelle. Per dispiegare il suo campionario umano, Mike Leigh sceglie infatti la fotografia asciutta e documentaristica di Dick Pope.

 


 

Sono gli esclusi i veri protagonisti del film: né clochard, né manager in carriera, con le loro vite mediocri ci attirano come buchi neri, permettendoci di intuire qualcosa delle loro esistenze, di saggiare un po’ di quella sensibilità che i loro benefattori, Tom & Gerri, ostentano senza possedere veramente. A ribadire con forza questa lettura dello scorcio di vita/e presentato dal film è la scelta di incipit ed explicit speculari: laddove il già citato primissimo piano d’esordio del film inquadrava una regina degli esclusi come la malinconica paziente di Gerri; su di un’altra reietta si sofferma la macchina da presa, per chiudere il film. Si tratta di un primo piano di Mary, che ancora una volta ospite a cena dei suoi  “generosi” amici, avendo rinunciato ormai a tutto il suo armamentario di moine, eufemismi e vestiti, confessa con il suo imbarazzato silenzio e la sua aria dimessa, tutto il disagio che prova di fronte alla “famiglia perfetta”. Accanto a lei un altrettanto impacciato Ronnie, si guarda attorno spaesato. Frattanto, sotto l’effigie affranta di Mary in primo piano, il chiacchiericcio da tavola si attutisce a poco a poco, fino a scomparire: il silenzio è il suono del vuoto che la opprime e l’attanaglia. Ma la sensazione che rimane quando la dissolvenza in nero spenge l’immagine sui titoli di coda, è che il vero vuoto sia quello di Tom, Gerri e di loro figlio Joe (Oliver Maltman), che ci è stato presentato nel suo studio di avvocato di cause pro bono, mentre rimane sordo alle richieste di “far presto” dei suoi clienti e continua a parlarsi addosso compiaciuto. Tutti e tre sono incapaci di ascoltare, la loro è una recita dell’ascolto, qualcosa che serve solo ad accrescere la loro autostima di superficiali commedianti. Quanto alla ragazza di Joe, Katie (Karina Fernandez), è una sorta di liofilizzato dell’allegra recita del buon vivere che ci propinano gli altri tre: coquette, concentrato di smancerie sempre sopra le righe, è adorabile fino a rendersi detestabile.

 

 

Ancora una volta dunque Leigh affronta i temi a lui cari dell’epopea del quotidiano e i rapporti interpersonali che animano le vite ordinarie dei suoi ordinari personaggi, con i toni intimi del dialogo familiare (lo aveva già fatto in Segreti e Bugie e Happy go Lucky ad esempio). Ancora una volta s’interroga sul senso dei rapporti umani e la sfera dei sentimenti, riuscendo ad evitare sciocchi sentimentalismi e psicologia spicciola. Con la macchina da presa registra, osserva, constata senza giudicare, né celebrare: lascia scegliere allo spettatore da che parte stare, a quale atteggiamento aderire; portandolo così a valutare se stesso, oltre che i personaggi.

Il suo cinema verboso, costantemente sbilanciato sull’oralità più che sull’immagine, potrebbe essere paragonato al pasoliniano “teatro di parola”, ed ecco che la similitudine teatrale torna, dalla scenografia alla sceneggiatura, portando il film a una sorta di “grado zero” del cinema, che risente molto della formazione teatrale del regista. Se da un lato il forte impianto verbale rende la narrazione poco scorrevole, dall’altro lo salvano l’ironia sorniona che a tratti emerge nei dialoghi e il tono del linguaggio, che si attesta su un livello medio, senza divenire mai inutilmente forbito, errore in cui sarebbe facile incorrere per un cinema così intimista; non a caso del resto, il film è candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. La recitazione degli interpreti si adegua a questa regola drammatica trovando la sua misura in un’interpretazione naturalistica che enfatizza i silenzi caricandoli di significato. È in queste pause che s’insinuano minime espressioni, capaci di restituire tutta la complessità interiore di Mary, Ken, Ronnie e Carl. E in quelle stesse pause ritroviamo il giudizio silenzioso di Gerri, Tom e Joe. Colpisce inevitabilmente, tra tutti gli attori, l’interpretazione di Lesley Manville: la sua Mary è un misto di spavalderia e insicurezza, che intenerisce per la totale incapacità di dissimulare anche i più tristi moti del suo animo.

 

 

Another year
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