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L'impossibile iperbole di Cetto

di Luigi Nepi
  Qualunquemente
Data di pubblicazione su web 02/02/2011  

Sono passati già tre anni da quando Antonio Albanese, a Che tempo che fa, si tolse la parrucca di Cetto Laqualunque ed in lacrime disse a Fazio: “È stato tutto inutile... hanno vinto loro...”, erano infatti ancora “calde” le immagini della caduta al Senato del secondo governo Prodi, con senatori che, in aula, stappavano bottiglie di spumante e si ingozzavano di mortadella mettendo a rischio le loro non più giovani giunture con volutamente esagerati “gesti dell’ombrello”: tutto ciò rappresentava la fine perfetta di quel personaggio; un’occasione unica che un attore intelligente come Albanese non poteva lasciarsi scappare e che gli ha fornito l’opportunità di dare una delle più intense e commoventi dimostrazioni delle sue capacità recitative. Quel 26 gennaio 2008 si è effettivamente chiusa una fase del personaggio di Cetto Laqualunque: il repentino mutamento della situazione sociale e politica italiana, che è avvenuto in questi tre anni, ha trasformato il suo fantomatico “Partito du Pilu”, da una smodata e geniale caricatura di un certo modo di fare politica ad un disarmante specchio dei tempi, dove il sesso è effettivamente diventato lo strumento principe della corruzione in Italia, evidenziando come nella classe dirigente di questo paese (storicamente maschilista) sia ancora diffusa una barbarica concezione della donna, come mero oggetto di scambio.

Albanese ha perciò abilmente rimodellato il “folkloristico” Cetto in una figura più concreta e meno paradossale (dato che i paradossi gli venivano, di volta in volta, forniti proprio dalla cronaca politica) ed il segno tangibile di questo lavoro di affinamento del personaggio è la rinuncia ad indossare le manette al polso sinistro che Cetto aveva costantemente esibito fin dalla sua prima apparizione all’interno di uno dei programmi della Gialappa’s Band su Italia 1. Un’evoluzione assolutamente indispensabile per poter dare a quel personaggio una progettualità cinematografica credibile e, soprattutto, sensata; quindi Qualunquemente non è semplicemente la trasposizione cinematografica di un fortunato personaggio televisivo, ma rappresenta l’atto conclusivo di un sottile lavoro dell’attore sulla sua creazione e sulle sue effettive potenzialità.

 



 Il film ci mostra la resistibile ascesa di Cetto Laqualunque da latitante in attesa di prescrizione a candidato sindaco della ossimorica Marina di Sopra (gemellata con la tragicamente evocativa Weimar) ed anche se lo sviluppo narrativo risulta piuttosto prevedibile, la sua costruzione filmica riserva qualche piacevole sorpresa niente affatto banale, come, ad esempio, la prolungata inquadratura di De Santis (il candidato rispettoso della legge) sul quale, al termine del dibattito televisivo, si spengono significativamente le luci dello studio e lui rimane lì, fermo e impotente, a rappresentare, efficacemente, lo scoramento di tutti coloro che sono costretti quotidianamente ad assistere alla degenerazione di un certo modo di fare politica.

 


 

Se la sceneggiatura, come era logico pensare, affastella fin troppe tematiche di spiccato sapore satirico (dal rapporto mafia-chiesa-politica all’abusivismo edilizio, dall’evasione fiscale alla considerazione della donna, tanto che l’amante sudamericana viene ribattezzata da Cetto “Cosa”, mentre della figlia avuta da lei non ricorda più neanche il nome), la parte più interessante è la dinamica che si innesta tra il personaggio di Cetto e quello di Jerry Salerno, esperto consulente in campagne elettorali, interpretato da un ispirato Sergio Rubini. È lui il vero alter ego di Cetto, l’anima “nera” dello sgargiante Laqualunque: deciso, preciso, puntuale, pragmatico, devotamente dedito al tai chi è l’esatto contrario del protagonista, con il quale instaura una dialettica non solo narrativa, ma fatta anche di primi piani, di sguardi, di dettagli e di colori. Se Cetto è l’immagine della degenerazione della politica italiana, così Jerry rappresenta la degenerazione di certe professionalità, che mettono a disposizione il loro know how al miglior offerente, senza porsi alcuno scrupolo morale ma solo delle finalità di ordine pratico e materiale. Dall’incontro con il rispettivo “lato oscuro” entrambi i personaggi ne escono chiaramente trasformati e questo loro cambiamento viene sottolineato anche filmicamente dalla radicale diversità con la quale vengono mostrati l’arrivo e la partenza di Jerry dall’aeroporto.

Il film è affidato alle mani di Giulio Manfredonia, regista di fiducia di Albanese fin dai tempi di È già ieri (remake del divertente Ricomincio da capo di Harlod Ramis), che costruisce intorno a Cetto un mondo di colori primari e secondari estremamente decisi che contrastano ancora di più con lo sfondo paesaggistico di desolante degrado cementizio; Manfredonia passa così dall’ottimismo tragico di tipico stampo veltroniano di Si può fare al pessimismo euforico di Albanese, che si porta con sé la triste consapevolezza di come, oggi più che mai, nella satira politica italiana l’iperbole sia una figura retoricamente impossibile.

 

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