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Italians

di Vincenzo Borghetti
  Ambrogio Maestri (Tonio)
Data di pubblicazione su web 01/02/2011  

Cavalleria rusticana e Pagliacci sono opere che si amano, e si tornano a vedere sempre con grande piacere. E anche con una punta di imbarazzo. Sì, imbarazzo, perché mostrano (celebrano?) modi di essere uomini e donne che a molti di noi oggi non vanno più bene (non a tutti, purtroppo). Per noi Italiani del XXI secolo, Cavalleria e Pagliacci sono uno specchio, uno dei tanti che preferiremmo non avere mai davanti agli occhi. Come la serie televisiva americana I Soprano, entrambe ci costringono a vederci per quello che di noi non ci piace, ma che nonostante tutto ancora siamo: uomini incapaci di costruire un rapporto con le donne se non con la violenza (Canio), uomini incapaci e basta (Turiddu), che sanno chiamare sempre e solo la Ğmammağ; donne sempre e solo vittime del mondo dei maschi, incapaci anch’esse di parlare se non per mezzo di lacrime e di preghiere col cuore in mano (Santuzza) o delle arti della seduzione (Nedda). Nell’Italia da poco unita le due opere (rispettivamente del 1890 e del 1892) portavano in scena gli Italiani ritratti “dal vero”, di cui avrebbero poi contribuito a consolidare l’identità, offrendo per il futuro modelli che sarebbero divenuti non “storici”, ma “archetipici” dell’essere uomini e donne italiani. Non c’è alternativa: o bruti o mammoni; o prefiche o zoccole. Ogni riferimento all’Italia contemporanea…

 


Una scena dei Pagliacci

 

Alla Scala Cavalleria e Pagliacci sono tornate insieme, dopo essere state proposte in abbinamento con altri titoli nelle ultime edizioni (Cavalleria con Gianni Schicchi di Puccini nel 1988; Pagliacci con Le baiser de la fée di Stravinskij nel 1993). Impresa non semplice per il regista Mario Martone debuttare alla Scala, e doversi confrontare con queste due opere, magnifiche, senza dubbio, ma pure così sgradevolmente “italiane” per quello che raccontano, per come lo raccontano, e per come si sono sedimentate nella memoria teatrale e musicale del pubblico.

 

Con intelligenza e grande senso del teatro, Martone ha scelto due linee molto diverse nella regia di Pagliacci e Cavalleria (rappresentate in quest’ordine), trattandole come le opere autonome che difatti furono: il dittico divenuto poi standard è stato creato del resto proprio alla Scala nel 1926; fino a tempi molto recenti in questo teatro le due opere hanno fatto coppia fissa solo in poche stagioni.

 


Ambrogio Maestri (Tonio), José Cura (Canio) e Oksana Dyka (Nedda)
 

Forse spinto dal modernismo più accentuato della partitura di Leoncavallo, Martone ha ambientato Pagliacci nello squallore di una periferia di oggi. La scena riproduce un campetto pasoliniano, posto sotto una rampa da tangenziale (scene di Sergio Tramonti), dove sostano gli Ğattori di fierağ (molto simili ad una piccola comunità Rom) che mettono in scena lo spettacolo per la festa di quartiere di un Hinterland metropolitano qualsiasi. Gli abiti del coro sono come quelli del pubblico in sala (costumi di Ursula Patzak). Il coro stesso costituisce il trait d’union tra pubblico e scena, poiché, collocato in parte sul palco, in parte in palchi di proscenio e su praticabili al lato dell’orchestra, assiste allo spettacolo dei “pagliacci” dalla prospettiva degli spettatori in sala. Lo spettacolo di Martone si avvantaggia di questo ampliamento dello spazio scenico, visto che non solo il coro, ma anche i personaggi interagiscono col pubblico e si muovono liberamente tra scena e platea. In tal modo il regista raggiunge momenti di fortissimo coinvolgimento emotivo: penso per esempio a quando Canio minaccia col coltello uno spaventato spettatore in un palco nel suo monologo del primo atto (ĞUn tal gioco, credetemiğ); oppure alla fine dell’opera quando sempre Canio balza in platea, dove abbranca e accoltella Silvio, e poi si allontana dall’ingresso principale, sibilando Ğla commedia è finitağ.

 


Elena Zilio (Mamma Lucia) e Luciana D'Intino (Santuzza)

 

Per Cavalleria Martone ha fatto scelte opposte. Dalla nostra contemporaneità si ritorna nel mondo di ieri: coro e personaggi vestono costumi tardo ottocenteschi, ma senza una connotazione storica troppo accentuata. Dai colori della festa paesana e dei commedianti, si passa qui ai neri, grigi, marroni e bordeaux spenti della mattina di Pasqua in una Sicilia severa e rituale. Il palco è del tutto vuoto; il coro, come in una tragedia greca, è (quasi) sempre presente, seduto su due gruppi di sedie allineate, volge la schiena al pubblico durante la funzione che si svolge a scena aperta (dal fondo calano ed entrano un altare e un enorme crocifisso, in seguito arrivano un muretto a secco e un ceppo). Nella regia di Martone quella del coro è una presenza opprimente: è una comunità che non lascia letteralmente né spazio né scampo ai personaggi, che, costretti ad agire sempre sul proscenio, occupano il centro della scena solo alla fine dell’opera. L’addio di Turiddu alla madre avviene però in uno spazio ormai svuotato, illuminato solo da una luce fredda e tagliente (luci di Pasquale Mari) che mette risalto con grande efficacia la solitudine e lo spaesamento dei personaggi, abbandonati anche da quella comunità che pure a loro impone un sacrificio estremo.

 

Insieme alla regia di Martone la direzione di Daniel Harding è stata l’altro punto di forza di questa produzione. Per la prima volta il direttore si misurava con il verismo italiano, e per di più alla Scala, dove era sì stato acclamato in precedenza, ma in repertori considerati non “nazionali” (come l’Idomeneo del 2005). Il pubblico della Scala per questo lo attendeva al varco, per così dire. Nonostante qualche contestazione alla prima (come c’era da attendersi del resto), le serate successive hanno registrato un successo pieno. Harding ha avuto il merito di affrontare Pagliacci e Cavalleria senza spacciarsi per un “verista” di lungo corso, bensì ponendosi di fronte alle due opere come se fossero state sinfonie di Bruckner o di Mahler, repertorio a lui più familiare. Proprio per questo il risultato è stato sconcertante e sorprendente allo stesso tempo: è molto raro sentire Leoncavallo e Mascagni suonati con così tanta cura dei dettagli, ma anche senza alcun timore dei grandi slanci melodici di cui i compositori sono famosamente generosi.

 


Elena Zilio (Mamma Lucia) e coro

 

Per quanto riguarda i cantanti, la prova migliore è stata senza dubbio quella di José Cura (Canio). So già che molti non condivideranno il mio giudizio. È vero, i suoi mezzi vocali mostrano tutti i segni del tempo e tutti i difetti di una tecnica ormai traballante. A me però questa voce malandata è sembrata perfetta per Canio, che, cantato così, è ancora più credibile come uomo sconfitto nella vita e nei sentimenti. Le doti attoriali di Cura sono poi senza paragoni: il suo è un Canio fisico e appassionato; nel vederlo dal vivo non si riesce o, meglio, io non sono riuscito a non restarne soggiogato e commosso. Molto bene dal punto di vista drammatico e vocale il Turiddu di Salvatore Licitra, così come il Tonio di Ambrogio Maestri, il Silvio di Mario Cassi e l’Arlecchino di Celso Albelo. Nessuna delle due protagoniste femminili ha invece brillato per intensità interpretativa, né Luciana D’Intino (Santuzza, penalizzata da una dizione poco comprensibile, specie nel registro medio-alto), né, soprattutto, Oksana Dyka che, nonostante mezzi vocali considerevoli, è stata una Nedda generica, apparentemente indifferente alle passioni che il personaggio dovrebbe trasmettere (di certo poi non aiutata dal confronto con le ottime prestazioni attoriali degli altri interpreti). Sia dal punto di vista scenico che musicale poco incisivo anche il contributo di Claudio Sgura (Alfio) e Giuseppina Piunti (Lola). Una menzione speciale merita invece Elena Zilio, una mamma Lucia di rara misura e intensità.



Pagliacci e Cavalleria rusticana

Pagliacci
cast cast & credits
Cavalleria Rusticana
cast cast & credits



Oksana Dyka (Nedda)

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


José Cura (Canio)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Luciana D'Intino (Santuzza) e Salvatore Licitra (Turiddu)





 

 
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