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Storia di un uomo comune

di Elisa Uffreduzzi
  Il discorso del re
Data di pubblicazione su web 31/01/2011  

Londra 1925: l’impacciato Duca di York Bertie (Colin Firth) deve tenere un discorso a nome di Re Giorgio V, suo padre. Scopriamo così che l’uomo è balbuziente, il che costituisce motivo di vergogna per un membro del casato reale, impegnato in rigidi cerimoniali di etichetta, che mal si sposano con la sua zoppicante eloquenza.

Per diventare re dopo la morte del padre e  l'abdicazione del fratello Re Eduardo VIII (Guy Pearce), Bertie dovrà affrontare le sue difficoltà di comunicazione. Ad aiutarlo in questa difficile impresa saranno la devota moglie Lady Lyon (Helena Bonham Carter) e lo stravagante logopedista Lionel Logue (Geoffrey Rush), che con i suoi metodi poco ortodossi lo costringerà a fare i conti con i traumi infantili che si nascondono dietro al suo difetto di dizione.

La Storia, quella degli anni che precedono la seconda guerra mondiale, fa solo da sfondo a una vicenda privata che restituisce un personaggio statuario alla sua dimensione di uomo comune, compreso nelle difficoltà del quotidiano: dai difficili equilibri familiari, agli impegni lavorativi  e all’handicap nella declamazione.

La trama in sé esile non aiuta il ritmo della narrazione, che incede con lo stesso impaccio della dialettica del protagonista; tuttavia il film vanta non pochi pregi e nel complesso risulta senz’altro piacevole. Del resto scegliere di raccontare una vicenda biografica dalla lente del difetto di pronuncia del personaggio principale, la riduce inevitabilmente all’osso, facendone una sorta di fiaba per bambini, semplificata nei moventi dell’azione e nel delineare i personaggi.

 


 

Se tanta semplicità rischierebbe di far naufragare completamente il film, lo portano in salvo il cast stellare – fatto di interpreti che oltre alla fama conservano l’abilità di restituire sullo schermo una vasta gamma di sfumature di sentimenti – una fotografia qualitativamente alta e una consistente dose di ironia all’inglese, il cui merito va certo alla sceneggiatura, ma anche agli interpreti che l’hanno resa credibile, conferendo al film una leggerezza difficile per un film in costume.

L’interpretazione dei vari attori si attesta su una tendenza minimalista, che rifugge gli eccessi, rendendo così attendibili scene altrimenti al limite del ridicolo come quelle degli stravaganti esercizi cui si sottopone Bertie/Colin Firth per curare il suo disturbo. Lo stesso può dirsi di Geoffrey Rush, che mantiene il proverbiale aplomb britannico anche di fronte alle pur contenute esplosioni d’ira del suo regale paziente. Completa l’ottimo trio degli interpreti principali un’altrettanto sobria Helena Bonham Carter, che riesce nella difficile impresa di non scomparire dietro le spoglie di un personaggio relegato nell’ombra degli altri due. Ma pur vantando un ottimo doppiaggio il film meriterebbe senz’altro la visione in lingua originale: rasenta infatti l’ossimoro la scelta di doppiare una pellicola imperniata su una dizione che lo spettatore in questo modo non potrà mai apprezzare nella sostanza.

La fotografia di Danny Cohen crea una Londra calligrafica, dove anche la nebbia è paradossalmente ben definita, contribuendo così ad innalzare lo standard del film: una cifra ottica decisamente azzeccata; peccato per quegli eccessi che spezzano qua e là questa equilibrata norma visiva di riferimento. Alcune inquadrature fin troppo patinate intervengono infatti a mo’ di inserti: cartoline, souvenir di viaggio dalla trama eccessivamente nitida; un eccesso che stona come il cronografo sul polso di un centurione in un film ambientato nella Roma antica. Così è per i quadri relativi alla cupola della cattedrale di Saint Paul, al Tower Bridge e al Victoria Memorial, per fare degli esempi. Tra le soluzioni visive che si fanno notare, spiccano le inquadrature d’apertura, in cui alcuni quadri con stacco di montaggio mostrano da varie angolazioni l’oggetto-metonimia della vicenda narrata: un microfono destinato alle trasmissioni radiofoniche. Oltre a queste, particolare enfasi caratterizza le magniloquenti riprese dell’abbazia di Westminster nel finale: sia quando è ripresa dall’alto, con una prospettiva della navata centrale che si sviluppata in profondità; sia quando ad essere ripresa con un punto di vita fortemente angolato dal basso e carico di significati emotivi è la scalinata che porta al trono dal quale Bertie dovrà tenere il suo discorso d’incoronazione.


 


 

Molto interessante risulta la valorizzazione dello sfruttamento della radiofonia e (in minor misura) dei cinegiornali, nella fabbrica del consenso monarchico e nella comunicazione istituzionale ai sudditi. In particolare la menzione visiva della macchina da presa, inquadrata frontalmente nello studio del re a Buckingham Palace prima e nell’abbazia di Westminster poi, come uno sguardo in macchina, richiama l’attenzione dello spettatore in una sorta di cortocircuito metalinguistico che mentre riflette il cinema, fa riflettere lo spettatore.

Dopo aver fruttato un Golden Globe a Colin Firth come miglior attore drammatico, il film è candidato agli Oscar 2011 con dodici nomination: miglior film, miglior attore protagonista (Colin Firth), miglior attrice non protagonista (Helena Bonham Carter), miglior attore non protagonista (Geoffrey Rush), miglior regia (Tom Hooper), miglior sceneggiatura originale (David Seidler), migliore scenografia, migliore fotografia, migliori costumi, miglior montaggio, miglior colonna sonora originale e miglior sonoro.

 

 

Il discorso del re
cast cast & credits
 






 
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