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La sacralità di una promessa

di Francesca Valeriani
  La donna che canta
Data di pubblicazione su web 26/01/2011  

Il quarto lungometraggio di Denis Villeneuve, La donna che canta, supera i limiti mostrati dai recenti Miral (Julian Schnabel, 2010) e I fiori di Kirkuk (Fariboz Kamkari, 2010), evitando allo stesso tempo lo sfacciato patetismo del primo e l’analisi didascalica del secondo. Anche il regista canadese, come Schnabel e Kamkari, sceglie di raccontare l’atrocità di guerre scaturite da conflitti etnici e religiosi, mostrando un punto di vista squisitamente femminile.

A differenza dei colleghi sopra citati, Villeneuve ha il merito di realizzare un’opera potente e incisiva, con un finale che sicuramente non lascia indifferenti per i suoi numerosi colpi di scena. Ispirata alla pièce teatrale di Wajdi Mouawad (Incendies, 2003), la storia alterna due diverse dimensioni temporali e spaziali. In Québec, Nawal Marwan (Lubna Azabal) muore affidando le proprie volontà testamentarie al suo datore di lavoro, il notaio Lebel. Alla lettura del testamento i figli della donna, i gemelli Simon (Maxim Gaudette) e Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin), ricevono due lettere: una destinata al padre che credevano morto e l’altra al fratello di cui ignoravano l’esistenza. Simon reagisce con violenza e sgomento alle inaspettate notizie, opponendosi alle indicazioni della donna, che rifiuta una degna sepoltura se prima non vengono recapitate le due lettere. Al contrario, Jeanne decide di assecondare le richieste della madre e parte per il Libano, terra di origine di Nawal, per trovare il padre e il fratello. Il viaggio della ragazza, come spesso accade, diventa un vero e proprio percorso di conoscenza e maturazione: per Jeanne risulta impossibile trovare il padre e il fratello senza prima scoprire e fare i conti con il doloroso passato volutamente tenuto nascosto dalla madre.

 

 


 

Il quadro completo della vicenda si acquisisce con il massiccio uso del flashback, grazie al quale si assiste alle sequenze più emozionanti e avvincenti del film, ambientate in Libano negli anni Settanta e Ottanta. Lo spettatore, come Jeanne, comprende gradualmente i ripetuti orrori subiti dalla madre, fin dall’adolescenza. Disonorando la famiglia di religione cristiana maronita, Nawal concepisce un figlio con un profugo palestinese, giustiziato successivamente dai due fratelli della ragazza. Dopo il parto, Nawal viene separata dal neonato, ma giura davanti a Dio di rintracciarlo al più presto. Il piccolo viene affidato a un orfanotrofio locale, mentre Nawal, ormai marchiata come traditrice, è costretta all’esilio. Si reca a Daresh, dove studia presso l’università e si impegna politicamente prendendo parte al giornale della facoltà, schierandosi contro il partito nazionalista. Con lo scoppio della guerra civile (1975-1990), Nawal ritorna al suo villaggio in cerca del figlio, trovando al posto dell’orfanotrofio un desolante ammasso di macerie. Annientata dal dolore e colpevole di non aver rispettato la sacralità di una promessa, la donna decide di passare all’azione ed entrare a far parte delle milizie mussulmane. Sarà dunque compito di Simon e Jeanne ritrovare il bambino a lungo taciuto e forse perduto per sempre. Il drammatico epilogo della vicenda merita di essere scoperto dallo spettatore, senza che qui si forniscano ulteriori anticipazioni. Resta tuttavia da sottolineare che quella che può apparire come una vicenda fin troppo scioccante e disturbante non è altro che un esplicito richiamo alla tragedia greca per eccellenza, ovvero l’Edipo re di Sofocle.

 


 

 

Il presente e il passato si intrecciano senza confondere lo spettatore, dando vita a una serie di episodi introdotti da sottotitoli a caratteri rossi (una scelta che richiama inevitabilmente il colore del sangue). La figura di Nawal finisce per prendere il sopravvento sui personaggi di Simon e Jeanne: la sua straordinaria determinazione le permette di reagire di fronte alle vessazioni subite. Una volta diventata incapace di ribellarsi fisicamente, l’eroina intravede nel canto la forma di rivolta più libera ed efficace (“la donna che canta” è il soprannome con cui viene identificata). La sua voce copre le grida di disperazione di combattenti destinate a condividere la sua stessa sorte. Man mano che il viaggio conoscitivo intrapreso da Jeanne comincia a delinearsi, madre e figlia, così distanti a livello caratteriale, finiscono per assomigliarsi fisicamente a tal punto da confondersi.

I corpi e i volti delle due attrici, carichi di espressività, rimangono al centro della scena a scapito del paesaggio libanese, sia questo naturale o urbano. La bellezza del territorio mediorientale, prima collinare e montuoso poi desertico, viene subordinata rispetto ai conflitti religiosi e al dramma personale dei protagonisti. Lo sguardo di Jeanne, straniero come la macchina da presa del regista, non mostra la sorpresa nel trovarsi a contatto con un ambiente luminoso e caldo, così diverso dal freddo grigiore del Canada. Questo risulta l’unico limite mostrato da Villeneuve, che realizza una pellicola destinata a bruciare nella mente del pubblico, come gli incendi annunciati nel titolo originale del film.

 

La donna che canta
cast cast & credits
 


La locandina originale




 
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