Ci sono molti modi di parlare di eutanasia al cinema, tra i molti cè quello di Clint Eastwood in Million Dollar Baby, quello di Amenabar in il Mare dentro, oppure quello del francese Olias Barco in Kill me please, tanto accattivante da fargli vincere lultimo Festival del cinema di Roma.
Barco decide di premere sul pedale della farsa e dei toni grotteschi e sarebbe sbagliato dire che non si possa fare, che non ci si possa abbandonare a due sghignazzate su un tema che di tanto in tanto divide e scuote loccidente.
Dunque, cè un bel castello che ospita una clinica dove, con tutte le attenzioni della migliore sanità privata, il dottor Kruger si impegna a traghettare i suoi pazienti nel tanto desiderato aldilà.
Si capisce che la clinica è sotto indagine per non precisate ragioni finanziarie, che gode di finanziamenti pubblici e della riprovazione dei rustici abitanti dei dintorni, i quali alla richiesta di informazioni in merito reagiscono come i contadini transilvani quando gli viene chiesta la strada per la residenza della nobile famiglia Dracula.
Ci sarebbero quindi premesse serie, solo che i meno seri sono proprio gli aspiranti suicidi, manica di indomabili ipocondriaci, psicolabili e viziati, che arrivano a pretendere la morte come se fosse uno dei tanti servizi promessi dal pacchetto lusso. Il campionario include cantanti che hanno perso la voce, mariti che hanno perso la moglie (a poker), finti malati di cancro ed altri casi umani che di certo non aprirebbero dibattiti nazionali sulletica del fine vita.
Di fronte ai morituri insomma non cè molto spazio per la compassione, tuttal più per riflettere un momento si possono ascoltare le argomentazioni semiserie del dottor Kruger che culminano nellelogio dello studio canadese (probabilmente reale) sul costo per la società dei suicidi tradizionali, quelli, per intenderci, un po impulsivi e violenti.
Quando però, intorno al castello ammantato di neve, tutto precipita, ecco che i generi e i sottogeneri si mischiano, la commedia nera vira verso la declinazione pulp con qualche timido ammiccamento allhorror ma con la volontà di non concedere troppo a nessuna di queste connotazioni.
Il film mantiene fino in fondo la giusta ambiguità (per esempio Kruger come ce la racconta?) di non detto e non visto e loperazione riesce. La reazione è infatti di giusta sorpresa quando si vede che chi ha preso tanto in considerazione lidea di togliersi la vita non trova poi così strano toglierla ad altri e si ride quando chi ha deciso con insistenza di morire in giornata scappa a gambe levate perché, accidentaccio, lo vogliono ammazzare.
Resta così un film che senza preoccuparsi della correttezza politica che implicano certi temi ne parla senza volerne essere sopraffatto e distribuisce certificati di follia un po a tutti, a chi coltiva pensieri di morte, a chi fa del suicidio lultima tappa di un percorso edonistico, e ai molti (i più feroci) che si indignano per latto contro natura.
Barco (da noi ignoto fino ad oggi, ma non è alla sua opera prima), mostra il tutto con una fotografia senzaltro singolare, molte luci naturali, bianco e nero in cui solo ogni tanto affiora freddo il colore, assenza di musica, fragorosi rumori che negli esterni violano il silenzio imposto dalla neve. Ci sarebbe poi anche molta gloria per gli attori, chiamati al gioco corale e a difficili momenti individuali, peccato però per lidea infausta di far uscire il film doppiato.
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