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Martha Graham e Merce Cunningham, la storia e il presente

di Fabiana Campanella
  Roaratorio
Data di pubblicazione su web 01/12/2010  

Parte prima. Siena, ottobre 2010.

Convegno su Martha Graham, nell’antico e glorioso salone della Biblioteca degli Intronati: dalla formazione con Ruth St. Denis, alle nipotine Lucinda Childs e Trisha Brown. Martha Graham folgorata a Los Angeles nel 1911 dallo spettacolo di una Ruth St. Denis esotica e misteriosa, che identificava il suo corpo con la danza stessa: “Danzo quello che sono”. Così la piccola Martha svela ai genitori di aver detto una bugia con un suo movimento. Se la filiazione con i pionieri della danza americana, St. Denis, Isadora Duncan e Ted Shawn, implica un matricidio, la germinazione di quell’artigianato coreutico, dell’idea che la danza sia un linguaggio artistico autonomo che si costruisce con il training corporeo, vive e prolifica ancora nei matricidi di oggi.

Vito Di Bernardi e Silvia Poletti ripercorrono l’evoluzione e la rivoluzione della Graham, scomparsa nel 1990, a 97 anni: la destrutturazione del balletto volta a una danza teatrale e popolare caratterizzata da un preciso progetto drammaturgico, illuminata da un atteggiamento liturgico, profuso dal contesto religioso familiare. La “Danza etica” del suo corpo, lungo e scattante, passa dall’oggettività alla trascendenza con impressionante intensità, come nel video di Lamentation, rappresentazione del dolore senza mediazione narrativa. Nelle prime coreografie di gruppo, filmate nei video sgranati degli anni ’40, fa capolino un giovane e smilzo Merce Cunningham, tutto salti e scatti.

Steps in the streets (1936), El Penitente (1940), Diversion of Angels (1948), visti in video, hanno il fascino bianco e nero dell’antico, ma allo stesso tempo trasmettono l’energia sinuosa e sensuale di un genio assoluto, che non amava definirsi geniale, neanche quando nella sua danza la passione per il ballerino e compagno Eric Hopkins la travolse nella ricerca di archetipi dell’eros e del mito, fino all’apice del Minotauro (Errand into the Maze, 1947) e di Clitemnestra (1958).

 


Roaratorio

 

Al Teatro dei Rinnovati, nella promettente e affollata serata organizzata dalla Fondazione Toscana Spettacolo con la Martha Graham Dance Company, tutto questo è scomparso nel gusto nostalgico di una ricostruzione filologica. Poco credibili i costumi ricreati con la stessa ingenuità materica, le musiche dal sapore arcaico e stridente, le scene quasi ridicole di celeste e legno: il lavoro durissimo e perfetto della compagnia Graham è vittima di una (nostra) sensibilità troppo contemporanea, che rende insopportabile sulla scena ciò che in video è sconvolgente e mirabile.

Pur nell’identico tubo di stoffa blu, la bravissima Katherine Crockett, in Lamentation, appanna quella stiratura di dolore che invece giganteggerà sullo schermo alle spalle di Lamentation Variations, il momento più interessante del programma, ripresa e rielaborazione in tre fasi del celebre assolo di Martha Graham. Le Variations, nate nel 2007 in occasione di un anniversario dell’11 settembre, culminano nella messa in scena collettiva di quel flusso, in abiti quotidiani, fino ad abbandonarsi in terra sulle note di Chopin, per lasciare in piedi solo un abbraccio.

 

Nel pomeriggio di studi, Marinella Guatterini introduce con un tripudio di video e musiche la figura dell’allievo Cunningham, scomparso nel luglio 2009 a 90 anni, come “l’uomo che ha inaugurato la contemporaneità”. Distaccatosi presto dalla compagnia Graham e dalla sua modernità ancestrale, il giovane americano di madre irlandese, virtuoso del tip tap dall’età di 8 anni, sfida i limiti del movimento e sperimenta il concetto del “non giudizio”, una concessione di fiducia, autonomia e responsabilizzazione del corpo danzante, scollato da ogni realtà e narrazione. Merce Cunningham offre alla contemporaneità un corpo vuoto, svuotato di ogni soggettività: la danza lo colma di un movimento inedito.

A chiudere il percorso storico nell’America degli anni ’60 è Francesca Pedroni, invitata dalla curatrice del convegno, Gabriella Gori, a chiudere il cerchio tra modern e post modern: Lucinda Childs e soprattutto Trisha Brown recuperano la dimensione più spettacolare e interdisciplinare, già avviata da Cunnigham, fino a confrontarsi con le superfici verticali dei palazzi e con l’opera lirica, nella massima fluidità coreografica e nel trionfo del release e dello slancio, anche poetico, emotivo, e, finalmente, sociale e politico. Alla loro poliritmia instancabile e molecolare sono debitori le successive generazioni di coreografi, da Stephen Petronio a Bill T. Jones.
 


Roaratorio
 

Parte seconda. Parigi, novembre 2010.

Il Festival d’Automne ospita al Théâtre de la Ville i 60 minuti di Roaratorio, come tappa del Merce Cunningham Dance Company's Legacy Tour, due anni di giro del mondo per celebrare l’eredità artistica del coreografo americano, un’opportunità per vedere i suoi lavori eseguiti dai danzatori che lui stesso ha formato. Creato nel 1983 per il Festival de Lille au Colisée, al confine tra Francia e Olanda, Roaratorio è la quintessenza dello stile Cunningham/Cage, binomio perfetto tra coreografo e musicista, compagni d’arte e di vita, maestri rivoluzionari nell’approccio allo spazio, al tempo, alla tecnologia, alle altre discipline artistiche.

Ripreso per il Legacy Tour da Patricia Lent, con l’assistenza di Robert Swinston, danzatore storico della compagnia, tuttora in scena nel “ruolo” di Cunningham, Roaratorio incanta con la leggerezza assoluta e giocosa dei 15 danzatori, che alternano elementi di balletto classico, di modern dance, di balli popolari e combinazioni occulte, apparentemente sconnesse, per confluire in un unico piano, per un frammento di tempo, prima che un braccio, una coppia, un corpo o un salto prendano una direzione, o più, in totale divergenza. Su un tappeto-danza bianco su fondale bianco spiccano le tinte unite sgargianti e cangianti, a ogni entrata in scena, di costumi e accessori: scaldamuscoli, ginocchiere, magliette e body attraggono gli occhi come i dettagli di ogni singolo passo. A enfatizzare l’oggettività della figura umana è l’impossibilità di scegliere un punto di vista, in questa combinazione di passi, traiettorie e sguardi, come se il sorriso di una danzatrice fosse l’espressione pura del suo movimento, nella più assoluta sconnessione dalla scatola sonora.

In quadrifonia, due casse davanti e due dietro al pubblico, cornamuse, fruscii d’acqua, temporali e voci di bambini, galli e campane, trilli e cicalecci, qualche accenno alla melodia tradizionale irlandese, qualche verso “mesostico” distorto recitato dalla voce di John Cage.

Roaratorio, an Irish Circus on Finnegans Wake, è il frutto di un viaggio in Irlanda dello stesso Cage (1979), che visita i luoghi dell’ultimo romanzo di James Joyce, Finnegans Wake, e ne registra i suoni. “Il risveglio di Finnegan”, o la sua “veglia funebre”, elaborato da Joyce tra il 1923 e il 1938, è un poema eroicomico concepito in quattro parti, suprema sintesi del creato, ispirato all'omonima ballata popolare, mito eziologico dell’acquavite, ovvero del whiskey, causa della morte e della resurrezione del Sig. Finnegan, simbolo di un’umanità che cade, veglia e risorge.

È difficilissimo e sorprendente reagire agli stimoli pluridirezionali di questi suoni, e vedere che in scena agisce un altro mondo, creato autonomamente, fuori da ogni convenzione della composizione coreografica, dalla relazione tra causa ed effetto, tra climax e anticlimax. È l’inatteso, il senso della spontaneità, è la più totale astrazione del gesto, ciò che rende questo lavoro espressione piena della contemporaneità. Pur nella sua natura di ripresa celebrativa, Roaratorio è ineluttabilmente più vicino a noi di quanto non siano i lavori di Martha Graham, è un archivio vivente e attualissimo di connessioni e disgiunzioni del corpo nello spazio, nella collettività, nell’assurdo della realtà, nel flusso della fantasia. “Ho cercato – dice Cunningham in un’intervista – attraverso differenti livelli di complessità, la sovrapposizione del semplice e del multiplo, la sovrapposizione dei ritmi”. La sua insaziabile e inebriante ricerca di geometrie si consuma nel presente e nel caso, “in un’esperienza di possibile libertà. (…) Non si tratta di libertà d’espressione, ma di libertà assoluta”. (Merce Cunningham, 1952)

 

 

Roaratorio
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