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Il Vangelo secondo il regista d’opera

di Donato De Carlo
  una scena
Data di pubblicazione su web 19/10/2010  

Nella Salome, con cui il Teatro Comunale di Firenze ha aperto la sua stagione, un ruolo preponderante ha avuto la regia di Robert Carsen. È bene dunque cominciare da questa.

La sua ambientazione è il sotterraneo, grigio e metallico, di un casinò. Narraboth fissa sulla sinistra gli schermi delle telecamere di sorveglianza, puntate sulle sale da gioco, la luna piena, Salomè di cui è invaghito. La voce di Jochanaan, Giovanni Battista, proviene dal caveau sulla destra. Quando Salomè ottiene di farlo uscire, il Battista compare però dietro la parete di cassette di sicurezza, che si spalanca su un deserto di dune e cielo cobalto. Il profeta è vestito come una sorta di tuareg ma tutto di nero, e non si vede molto del suo corpo, che Salomè dice di amare mentre lo sveste. Il Battista è poi l’unico che non abbia abiti borghesi, oltre ai vari paggi e servi, che paiono antichi egizi (difficile invece definire il costume di Salomè nella prima parte). Finito il tentativo di seduzione, dalle scale compaiono Erode, che ricorda Larry Flint, Erodiade e tutti gli altri dissoluti frequentatori del casinò. I due ebrei dalla voce più acuta del quintetto sono delle carampane mondane, trovata a dire il vero gustosa. Mentre tutti sono presi dalla loro disputa teologica, Erodiade si avvinghia e si rotola da una parte con uno della servitù.

Arriva il momento della danza. Il caveau è chiuso, Salomè è vestita esattamente come sua madre, parrucca rossa compresa, si dimena davanti a lei e agli astanti, con le movenze più sguaiate e antierotiche che si possano immaginare. A un certo punto Erode tira fuori una telecamera – bella grossa, non come quella che Le iene e Antonio Ricci nascondono dappertutto – e si mette a filmarla; le immagini compaiono negli schermi di sorveglianza, inframmezzate da nudi e toccamenti espliciti – che non si vedono sul palcoscenico – di Salomè. Anziché spogliarsi lei, Salomè induce a denudarsi i flaccidi uomini che la contornano, e i sette veli della tradizione diventano sette fazzoletti che avvolgono le loro facce, a simboleggiarne il delirio. Poi Salomè sfida direttamente la madre, scolandosi qualche bottiglia – una fissa della cultura angloprotestante – e infine stampandole un bacio in bocca, come non se ne usavano sui palcoscenici dai tempi di Madonna e Britney Spears.

Finito tutto, Erode cerca di dissuadere Salomè dal chiedere la testa del Battista, facendo cadere polvere d’oro dalle cassette di sicurezza. Alla fine però, come d’ordinanza, dal caveau esce la testa mozzata del profeta, i presenti un po’ la sballottano, ma Salome la tiene per sé e la bacia appassionatamente. Dopo che la vispa adolescente è fuggita nello sfondo desertico in cui era comparso il Battista, Erode dà l’ordine di morte, ma – sorpresa – la donna verso cui si puntano i coltelli è invece Erodiade. Sipario.


Certo è vero che buona parte del successo della Salome di Strauss fu, ai suoi tempi, de scandale. Ma è difficile trovare provocatoria, nell’anno di grazia duemiladieci, una messinscena di tal fatta. Lo sguardo si usura, come i tesserini del codice fiscale, e la coreografia della danza (di Philippe Giraudeau), nell’epoca di internet e dei reaction videos, è solo timida pornografia di retroguardia. Incentrare la drammaturgia sul conflitto tra Salomè ed Erodiade, anziché Salomè e il Battista, può trovare giustificazione nel racconto evangelico, in cui la principessa perversa non ha neanche un nome ed è solo uno strumento della vendetta di sua madre. Ma nel dramma di Wilde, e nel libretto di Strauss, questo conflitto è solo una delle cause, non il cardine dell’azione. Verrebbe da dire, riprendendo la più celebre battuta di Wagner, che invece dell’effetto senza causa abbiamo qui la causa senza effetto. I conti della dinamica drammatica così non tornano: perché mai Salomè, che ha sfidato crudamente la madre, dovrebbe subito dopo eseguirne passivamente la vendetta contro un uomo, o almeno un corpo, che desidera a tal punto da baciare anche morto e mutilato? E che potere può avere sul dramma una matrona come Erodiade, che non è capace nemmeno di mollare un ceffone alla figlia? Non si capisce poi che senso abbia il fatto che il profeta sia tenuto prigioniero nel caveau, ma emerga da un luogo immaginario: la società corrotta e avida vuol possedere sottochiave persino la voce di Dio come fosse denaro? Giovanni Battista è una sorta di Bin Laden, perso in un altrove indefinibile, che tuona contro l’occidente? E se sì, che senso ha il finale? La fuga utopica dei due contestatori del sistema, che non sono nemmeno riusciti a rivelarsi affini? Ma sarà colpa di Erodiade se Giovanni pensa solo al suo dio ed è insensibile all’erotismo di Salomè?

Si resta perplessi, al di là del giudizio sul gusto della messinscena. Ma se anche una coerenza sul palcoscenico ci fosse, si sarebbe comunque spezzata l’unità dello spettacolo: regie profondamente originali, e insieme coerenti, si possono beninteso fare anche con Wagner (c’è l’esempio classico di Chéreau e quello recente della Fura dels Baus), ma il Musikdrama non è un genere che si possa rifoggiare a piacimento come un vecchio abito. I motivi che circolano nell’orchestra hanno una drammaturgia propria, una regia implicita: non tutto, certo, deve diventare esplicito, non tutto ha un senso univoco, e nemmeno tutto è essenziale, ma se si sorvola su troppe cose l’opera semplicemente si sfalda. Se l’orchestra pronuncia melodie riferite al Battista durante la danza dei sette veli, ma si è tutti presi dal cospicuo contributo del regista, che in quel momento ignora completamente il Battista, la musica è degradata a colonna sonora, e di quelle meno intelligenti.

Quanto alla parte propriamente musicale, nonostante l’opera sia una delle più snelle e folgoranti, il ritmo dello spettacolo è risultato alquanto appesantito. Troppo spesso la fossa ha sepolto le voci: l’eterna croce del Musikdrama. Difficile dire se ciò sia accaduto per la mancata intesa fra il direttore Ralf Weikert e l’orchestra o per una concertazione non equilibrata; certo è che dalla polifonia orchestrale sono emersi particolari molto interessanti, ma anche molte cose del tutto inutili. I più penalizzati dei cantanti sono stati la protagonista Janice Baird e, nonostante la sua potenza, il Battista Mark S. Doss. La prima è parsa proprio indebolita dall’impari lotta (si trattava della quarta recita) e più d’una volta rigida per lo sforzo. Nel lungo monologo finale, complici evidentemente i piani sonori più favorevoli, ha trovato però la duttilità e il calore lirico necessari, intensità nel registro grave, e anche la regia, a onor del vero, è stata attenta alla musica nel momento dei baci alla testa mozzata. Doss non è sembrato trovare il suo timbro migliore. Più freschi di voce ed efficaci sulla scena Irina Mishura (Erodiade) e Kim Begley (Erode). Bene il quintetto dei giudei, Mark Milhofer (Narraboth) e gli altri.




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